Il pretesto è il laboratorio di recitazione “Les chantier nomads” a Le Pont de Claix. Il risultato è un film che Eugène Green ha realizzato con ammirevole coerenza autoriale, ascrivendolo perfettamente alla sua ricerca tematica sull’identità, sul senso dello stare al mondo, sul rapporto con la Storia, l’estetica e il senso del bello opposto alla barbarie. Dodici attori dei trentacinque che hanno partecipato al laboratorio si ritrovano così fra gli scarni scenari di una Tolosa inquadrata in pochi dettagli delle sue architetture più suggestive: qui viene messa in scena (in parte riprendendo un antico testo in occitano) la fuga di alcuni civili nella casa di un mago per sfuggire all’imminente arrivo dei barbari. Il luogo diventa però uno spazio di confronto con le proprie paure, con i desideri e le possibilità di un mondo che evidentemente non si conosce, persi come si è nella smaterializzazione dei rapporti virtuali (la prima regola imposta dal mago è lasciare sulla porta telefoni cellulari e dispositivi elettronici di ogni sorta). Lo scarno contrasto fra luce e ombra dell’interno teatrale esalta una certa fissità di un cinema che cerca l’espressione dell’umano nella frontalità esasperata e nel tono come sempre declamatorio ma non espressivo della recitazione: i personaggi sono messi di fronte – letteralmente – alle proprie zone d’ombra e alla necessità di un ripensamento del rapporto con il reale, la vita, la morte, il contatto reciproco e il limite della propria dimensione fisica e filosofica.
L’annullamento di ogni dimensione spaziale – in contrasto ai pochi momenti in cui l’architettura delle chiese di Tolosa fa la sua comparsa – descrive un viaggio che è sì un percorso interiore e ideale in un mondo da ripensare, ma diventa anche una sorta di esperienza horror. Perché poi En attendant les barbares è questo: un film di fantasmi che devono realizzare il modo di ritornare a una dimensione fisica propria e quindi alla realtà. Personaggi che sono già morti nelle loro paure prima di iniziare e che dovranno comprendere il proprio limite per poi rinascere nella catarsi finale. Ci riusciranno grazie a una ricognizione che Green porta avanti da tempo sul linguaggio come forma di definizione identitaria, attraverso una musicalità che è espressione del bello, ma anche elemento di conservazione della Storia. Né potrebbe essere diversamente per questo regista senza passato, che ha tagliato i ponti con la nativa America, ma non riflette una sensazione apolide proprio in virtù di una ricerca costante che entra nel cuore della Storia europea e francofona, fino alle radici dell’architettura e dell’arte in quanto espressione dell’umana sapienza. In questo senso, En attendant les barbares non stupisce nel suo offrirsi quale messinscena di un poema epico-cavalleresco. Il viaggio verso la propria dimensione sta tutto nel recupero di una tradizione letteraria nobile, nel ritrovato senso di appartenenza a una dimensione apparentemente lontana, ma ancora capace di esprimere i dilemmi esistenziali del presente. Il rinnovamento non passa per un adeguamento esteriore, ma per una ricerca formale che guardi all’interiorità dei personaggi e sia propedeutica alla messinscena di una serie di traiettorie emotive forti. Di qui l’idea di un film assolutamente scarno, eppure efficacemente intenso, di un’opera dal sapore antico, ma ugualmente capace di esprimere i contrasti e le difficoltà della modernità. Lasciando emergere, come sempre nel cinema di Green, una strana alterità problematica che però è al contempo estremamente pacificata nella convinzione con cui inquadra il suo e il nostro mondo. La sensazione, ancora una volta, è quella di un sereno abbandonarsi e di un viaggio che è esaltante condurre sulle parole, i visi e i suoni di questo moderno cantastorie lontano eppure vicino al gusto del cinema che reinventa a ogni opera.