Ecco un film indiscutibilmente divisivo. Il che, in sé, sarebbe pure una bella qualità, a patto di creare fazioni che si confrontino su questioni concrete. Cosa che non si può certo dire per le reazioni che ha suscitato Enea sin dal suo passaggio a Venezia. La presunzione che gli si imputa con chiara ragione sarebbe anche un pregio (di certo non un privilegio da rivendicare), purché applicata a una scala di valori che tenga conto delle ambizioni di un autore e non della sua postura. Inutile negare che la storia del cinema sia stata scritta anche da autori che hanno fatto e disfatto nel nome di una presunzione alla quale dobbiamo tutti esser grati, perché quanto meno spinge in avanti, fa osare, si prende i suoi rischi con una dose di incoscienza che non tutti si possono permettere. E infatti è proprio la presunzione la qualità che ha permesso a Pietro Castellitto di immaginare un’opera seconda come Enea, fatta di dimensioni debordanti, di scene cubitali, di sbalzi irrazionali, in cui, se il troppo storpia, lo fa in ragione di una scala aumentata rispetto all’orizzonte in cui poi si colloca e ci colloca. Avercene di opere seconde che, potendoselo permettere, osano tanto: su questo bisogna essere onesti, a prescindere da qualsiasi giudizio si abbia sul film. È lo stesso discorso che va fatto per i fratelli D’Innocenzo, anche loro presenza utilmente ingombrante di questa ultima generazione di italiani sorrentinizzati, cresciuti all’ombra di un post/meta fellinismo anabolizzato.
La questione da affrontare – se si vuole parlare di Enea come di qualsiasi altro film di questo nostro cinema italiano – è, manco a dirlo, quella della realtà: qualunque essa sia, la realtà in un film deve offrirsi come uno spazio decifrabile e condiviso, dotato di un orizzonte che offra una profondità di campo in grado di individuare uno sfondo e delle figure che ci arrivino come qualcosa in cui poter stare anche se ne siamo estranei. Comprensibile perché assimilabile, dotato di una moralità che risponda non solo alla natura dei personaggi e della storia che incarnano, ma anche alla nostra ragione di spettatori, che non deve essere sottomessa, strattonata, aggredita. È lo spazio intermedio della relazione tra noi spettatori e l’universo del film, che un’opera come Enea mette in difficoltà. Forse volutamente, perché è evidente che Pietro Castellitto cerca lo scontro con il suo pubblico, lavora di irruenza e di eccesso: scene reiterate, derive narrative scoordinate, sovraesposizione emotiva delle psicologie in scena…La stessa scelta di porre il suo protagonista sotto l’onomastica della mitologia fondativa virgiliana, per poi calarlo in uno scenario romano che degrada bruscamente dalla dolce vita familiare alto borghese alla rovina di un Carlito da suburra capitolina, dice delle intenzioni di un film esorbitante in se stesso. In cui il prendere o lasciare è lo spazio psicologico offerto a un personaggio che non cerca mezzi termini, intriso di uno scontento che appare irrazionale, mero cinismo vestito da posa esistenzialista.
Ed è anche lo spazio d’azione lasciato allo spettatore per entrare in contatto con questa storia, in cui ci sono l’Enea incarnato dal regista e Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, al suo esordio come attore, noto col nome d’arte musicale Tutti Fenomeni): “Amici da sempre, vittime e artefici di un mondo corrotto, ma mossi da una vitalità incorruttibile”, spiega la sinossi. Sostanzialmente due tarde adolescenze in corpi e storie da adulti, in fuga dalle rovine delle loro famiglie per costruire il loro impero nella Roma dello spaccio, che ha le sue regole e sa costare cara. A latere le storie di un padre psicanalista di grido (e d’urlo, scopriremo alla fine…) interpretato da Sergio Castellitto, una madre rassegnata nella bambagia e un fratello minore fragile in tanto superbo benessere. In tutto questo, ciò che resta in crisi è, evidentemente, proprio la realtà di cui sopra: che è quella di una grande bellezza romana in cui la decadenza risplende dorata e ogni personaggio è vittima di se stesso. Il disequilibrio dei destini corrisponde al disequilibrio strutturale del film, che sbaglia insieme ai suoi protagonisti, sbanda ma sa anche accendersi di glorie. La sincerità che lo nutre in maniera quasi pulsionale non basta a renderlo un film sincero, perché poi c’è il bisogno performativo di un cinema pieno di sé, che sopravanza e non lascia spazio.