FilmmakerFest – Last Things di Deborah Stratman e il punto di vista delle rocce

Pare evidente che il punto di osservazione scelto da Deborah Stratman per raccontare questa alternativa e materica storia evolutiva sia lo spazio delle possibilità generate dallo sguardo: muovere gli occhi, tenerli aperti, entrare nella natura delle cose con la propria immaginazione pur affidandosi al dato oggettivo e inconfutabile di una materia immobile ma in trasformazione, rovesciata, ingrandita, espansa. Contemplazione meticolosa, esplorazione orante, senza dubbio rispettosa che dichiara anche la disponibilità a lasciarsi penetrare da immagini, accogliendo la reale possibilità dell’incanto, della meraviglia e dell’imprevisto. È lo spazio delle possibilità inteso come margine di rappresentazione simbolica di un mondo nascosto dentro un mondo rivelato ed esposto in cui l’essere umano è semplice osservatore collocato ai fianchi di un palcoscenico fisso, di cui è parte ma non interprete protagonista. Prendendo spunto da due novelle di J. H. Rosny, innervate da un tessuto fantascientifico che si lascia interpellare dal valore della storia e della memoria, dal peso del passato quindi, per proiettarsi nel futuro con la consapevolezza che non potrebbe essere altrimenti ma anche provocata dagli scritti di biologia e geologia di Roger Caillois, da Robert Hazen e dalla sua teoria evolutiva dei minerali, da Clarice Lispector, Lynn Margulis, Donna Haraway, Hazel Barton e Marcia Bjørnerud, la Stratman condensa in 50 minuti un flusso di stimoli visivi, schegge, frammenti, linee e forme che restituiscono le profondità di un senso che si spinge ben altrove il mero dato biologico.

 

 
Il titolo di questo ambizioso progetto traduce con precisione la direzione intrapresa dall’artista statunitense perché cattura l’immutata fissità plastica delle rocce, dei batteri, delle molecole, delle forze nel dinamismo di un rapporto di grandezza mai totalmente esaurito e mai, forse, immancabilmente, compreso: last things, le ultime cose, quelle che resistono. Le cose che noi guardiamo e che ci guardano da sempre. D’altra parte se è vero che dal maggiore deriva il minore, la Stratman si lascia interrogare dal contenuto di una presenza che viaggia nel tempo e riempie lo spazio (di senso?) riflettendo sull’ordine, le misure, le distanze, le angolazioni, le ragioni profonde. Ecco, quindi, da cosa iniziare: dallo stupore, realtà essenziale, irriducibile e ritornante, una sorpresa che si sottrae a ogni previsione, che illumina, risplende, interpella e che si traduce in parola. Non è fascinazione ipnotica che acceca, lasciando il soggetto senza parola. Piuttosto, sembra ribadire Stratman con il suo lavoro, lo stupore rianima il soggetto umano ponendolo nella condizione di ritrovarsi, riguardarsi, riconoscersi. La possibilità di raccogliere la sfida lanciata da Last Things è tutta della scena umana.