Fuga dal Libano: a Rotterdam53 Portrait of A Certain Orient di Marcelo Gomes

Libano, fine degli anni ’40: altre diaspore, altre storie di vita cercata altrove. Lo spunto viene dal romanzo del brasiliano Milton Hatoum Relato de um Certo Oriente, racconto stratificato di generazioni di brasiliani originari del Libano, in cui lo scrittore alla fine degli anni ’80 rievocava le proprie origini. Marcelo Gomes (Cinema, Aspirins and Vultures, 2005) ne fa una trasposizione parziale in Portrait of a Certain Orient, presentato a Rotterdam53 nella Big Screen Competition. Parziale perché il regista brasiliano si concentra sulla narrazione della fuga verso il Brasile di Emilie e di suo fratello Emir, che sono il ceppo originario della storia raccontata da Hatoum nel suo libro. Marcelo Gomes sceglie il dramma fondativo della fuga, che evidentemente riecheggia maggiormente di risonanze capaci di parlare al tempo presente: Emilie e Emir sono cattolici e hanno visto morire i genitori nei conflitti che dilaniano il Libano. La fuga in Brasile è un progetto di Emir, che ha venduto la casa di famiglia e ha sostanzialmente rapito la sorella dal convento in cui era finita.

 


 
Il progetto del fratello in principio è un trauma per Emilie, ma, superate le prime resistenze, è proprio lei ad accogliere a cuore aperto, come un nuovo inizio, quel viaggio in una terra straniera. Durante la traversata, mentre Emir vive nascosto in cabina, lei si impegna a imparare la lingua e conosce anche Omar, un mercante musulmano di Manaus, e se ne innamora, ricambiata. Ma il fratello nutre ancora odio per i musulmani, che hanno causato la morte dei loro genitori, e si oppone ossessivamente a quell’amore, senza tuttavia riuscire a fermare la sorella, che, una volta giunti in Brasile, lo trascinerà con se e Omar sino a Manaus. Il dramma che ne segue ha i colori forti dell’intolleranza e del melodramma, ma Marcelo Gomes non cavalca una drammaturgia piena, preferisce una linea narrativa vagamente astratta, che procede per grandi movimenti, finendo per incidere in maniera un po’ esemplificativa sulla sostanza della vicenda.

 


 
Coproduzione italiana, Portrait of a Certain Orient è un film limpido, elementare nella sua costruzione drammatica, non privo di una sua forza nel rapporto che crea tra i personaggi. Schermo prevalentemente in 4:3, bianco e nero d’ordinanza, una certa attenzione figurativa per il dettaglio sensibile, che però via via viene meno, per lasciare il campo a una costruzione più regolare della narrazione. In questo il film perde il contatto con la flagranza umana dei personaggi, che restano un po’ rigidi nelle loro posture psicologiche e nelle azioni, come lontani dalla sostanza del loro dramma. Lo stesso confronto con la foresta amazzonica, che accoglie la seconda parte del film, non trova mai un rapporto concreto con quella cultura indigena che, nel suo sincretismo, dovrebbe rappresentare il punto di unione dei personaggi. E man mano che la protagonista, Emilie, prende coscienza di sé e del proprio destino, le altre figure in campo finiscono sullo sfondo, cristallizzando un po’ lo sviluppo finale complessivo della vicenda. E lasciando il personaggio di Emir troppo solo con la propria rabbia, che perde le ragioni storiche e resta schiacciata sotto il segno dell’ossessione.