La patina anni ’70 contribuisce a stemperare i toni, non solo perché svapora un vago senso vintage sull’operazione, ma anche perché crea una distanza temporale che rende tutto più immateriale, se vogliamo persino mentale: siamo in The Mastermind, il nuovo film di Kelly Reichardt, visto a Cannes in Concorso senza che lasciasse granché, forse più interessante da ripensare ora a distanza, non foss’altro che per la presenza sempre più determinante di Josh O’Connor, attore capace di occupare in trasparenza e dolcezza le dimensioni dello schermo, lasciando sempre area ai margini. Il film è un classico heist movie con sfumature da commedia, deturnato dalla Reichardt in un oggetto un po’ svanito, distrattamente attento a ricalcare i perimetri delle reazioni, piuttosto che la flagranza delle azioni buffamente criminose messe a segno dal protagonista. Il quale è JB Mooney, un giovane uomo di provincia, padre di famiglia senza particolari qualità, anzi tendenzialmente nullafacente, una sorta di adolescente perso nell’età adulta che con una buona dose di incoscienza, s’inventa una doppia vita da ladro d’arte nella profonda provincia americana. Siamo in Massachusetts e JB Mooney organizza, con un paio di amici scombinati quanto lui, un furto di quadri dal locale Museo, cosa che gli riesce senza troppa fatica, tra guardie dormienti e imprevedibilità dell’impresa.

Poi c’è tutto il trambusto che viene dopo, tra polizia rognosa che gli arriva in casa e malviventi seri che non vanno per le spicce, e allora JB Mooney prende e scappa di casa, proprio come un bambino che l’ha fatta grossa e non vuole affrontare le conseguenze…E il film allora diventa un road movie svalvolato, un punto zero depotenziato dietro la nullità dell’antieroe, che cerca riparo a casa di vecchi amici e si ritrova a vagare senza una meta che non siano i guai in cui s’è cacciato. Come sempre nel cinema di Kelly Reichardt l’azione si struttura sulle smagliature del ritmo, sul controtempo che snatura la tensione e la trasforma in riflessione molle, minimale, ai limiti dell’astratto e tendente al teorico. Qui, per esempio, il confronto con la provincia americana ’70 si offre in contrappunto all’occlusione dello spazio di libertà per l’azione che il mondo contemporaneo esercita con ogni possibile strumento di controllo sulle nostre vite.

C’è quasi nostalgia per questa infanzia sociale libera di fare e disfare, sbagliare e fuggire, capace di appropriarsi dell’arte, di agire come si fosse in un Looney Toones incarnato nella realtà. L’approccio visivo (cromatico, dinamico) sembra voler aderire a certo cinema di quegli anni carico di umanità e di solarità anche nella ritrattistica noir (il Don Siegel dei ’70, per esempio), ma poi la Reichardt si sofferma con la sua solita curiosità sull’umanità minimalista che occupa i margini della realtà. E allora il ritratto di JB Mooney, scritto sul corpo eccessivo e goffo di Josh O’Connor (che chiaramente dialoga col tombarolo incarnato per La chimera di Alice Rohrwacher), diventa un piccolo saggio nostalgico sull’infanzia di un’America che aveva ancora la purezza per produrre veri eroi popolari, capaci di tradire le regole con poesia. Se a questo si aggiunge che il tutto è basato su eventi realmente accaduti in quegli anni in Massachusetts e che la Reichardt ama danzare con i piccoli outlaw che trova nelle pieghe della storia americana (Night Moves, First Cow), i conti tornano e The Mastermind emerge da se stesso con una certa determinazione.


