Un film origami, che si compone mentre si squaderna e rivela le sue forme, le sue idee, mentre si offre a altre strutture, a differenti disposizioni: La verità di Hirokazu Kore-eda, che ha aperto in Concorso la 76ma Mostra veneziana, è un oggetto che si libera dalla sua struttura di base con la leggerezza di una gestualità filmica che dialoga con le forme del cinema. Un film che vive due volte, come lascia intendere lo chignon in cui, a un certo punto, sono raccolti i capelli di Catherine Deneuve, la star attorno a cui tutto ruota: lo spettro di uno spettro che dialoga col fantasma lontano di un altro spettro, mentre la carne della sua carne è tornata a farle visita, per confrontarsi con lei sulla sua vita reale… Non che sia così complicato, anzi in prima battuta è tutto molto semplice: c’è Fabienne, che è una diva ormai ben matura ed è, appunto, Catherine Deneuve; e c’è sua figlia, Lumir, che è Juliette Binoche ed è una sceneggiatrice. Lumir è tornata dall’America assieme alla figlioletta e al marito Hank (Ethan Hawke), per chieder conto alla madre delle omissioni e delle invenzioni che ha messo nell’autobiografia appena pubblicata dalla star. Fabienne si sbarazza di quei rimproveri come fa con un po’ tutte le cose e le persone della sua vita: sminuendole dinnanzi al suo diritto a far sì che la vita sia come lei vuole che sia. Per un’attrice la verità non esiste, la finzione si impone. Sin qui il gioco è immediato, diresti che la materia del suo primo film occidentale si è imposta a Hirokazu Kore-eda quasi obbligatoria: questione di iconografie divistiche, alchimie produttive, schemi drammaturgici. Ma La vérité è, appunto, un film che si rivela a se stesso e, quando eleva a potenza il gioco della messa in scena, innesca un meccanismo di sublimazioni, un processo di passaggi di stato tra la vita e la finzione, che ha il sapore un po’ ironico dell’incantesimo. Proprio come lo scherzo della vecchia tartaruga Pierre, che forse un tempo era il primo marito di Fabienne, o almeno così dice la donna alla nipotina, che la crede una strega delle fiabe…
In realtà tutto il film è percorso da doppi corpi, esso stesso contiene un altro film, quello che un giovane regista sta girando con una neodiva, Manon, tenuta da tutti come l’immagine ritrovata di Sarah Mondavan, una grande attrice che prima di morire era stata amica e rivale di Fabienne. In questo melodramma fantascientifico, dove una donna vissuta fuori dal tempo, nello spazio, per sopravvivere al suo male incurabile, torna sulla Terra, Fabienne interpreta la figlia ormai invecchiata della protagonista, in un paradosso temporale che innesta sovrimpressioni esistenziali lancinanti, senza che questo scalfisca più di tanto la corazza di ironica superficialità che Fabienne veste da sempre. Ma Kore-eda non lascia mai spazio alla speculazione, tiene le fila di una narrazione che fa slittare i piani con agilità e dolcezza, li piega su se stessi, li trasforma e li offre come nuovi livelli di lettura. Ogni inquadratura è una giocosa mise en abyme della messa in scena, tanto quanto delle relazioni tra i personaggi, moltiplicando i piani di raffronto tra le verità di ognuna delle figure in scena. Le responsabilità reciproche, da sempre al centro del cinema del regista giapponese, sono lo specchio in cui il gioco affettivo dei personaggi si libera docilmente, senza perdere mai il contatto con la verità umana di ognuno di loro. E lo specchio della finzione contiene l’immagine della realtà in ogni sua forma, anche quella appartenuta agli stessi attori, che sembrano quasi giocare con le loro vite e carriere. Juliette Binoche sembra così cadere dalle altezze di Sils Maria tanto quanto la Deneuve sembra fare i conti con lo spettro della sua sfortunata sorella, Françoise Dorléac, diva dei ’60, morta prematuramente come la Sarah Mondavan del film…