I ricordi del fiume. Storie imperfette di cerchi aperti

gallery6È sapiente la costruzione che sorregge I ricordi del fiume di Gianluca e Massimiliano De Serio. Non una semplice incursione nella baraccopoli “più grande d’Europa”, ma la necessità di un confronto continuo con persone e paesaggi che dentro il Platz vivono e a loro volta mutano. Giocano con l’idea dell’invisibilità, con tutti i significati che questo concetto porta con sé. Uomini, donne, bambini, di cui si sa poco e che vivono come fantasmi a due passi dalle nostre vite, ma la cui storia è talmente diversa da innescare il primo dei tanti cortocircuiti di questo film. Un racconto fatto di sottrazioni, che scivola spesso nel non detto, nei fuori campo verso cui si rivolge quasi sempre lo sguardo dei protagonisti. Perché quello cui si assiste non è il cambiamento graduale di un microcosmo, ma la sua scomparsa improvvisa e netta, uno sradicamento deciso a tavolino, implacabile come il lavoro delle ruspe che schiacciano e radono al suolo capanne che erano case. Il pregio più grande di questo film è di aver saputo accostare due diversi punti di vista su questo luogo e su questa gente (in gran parte Rom, che vivono anche da quindici anni in questa realtà), quello di chi è completamente immerso e quello opposto, di chi non può sapere. Due diverse distanze, su cui si sorregge l’intero progetto, ambizioso e perfettamente riuscito nell’equilibrio tra allusione e rappresentazione.

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Perché si avverte con forza la presenza di qualcosa che va oltre ciò che semplicemente si vede: il legame tra chi osserva e chi è osservato, la reciprocità di sguardo e di aspettative, lo scambio di attese. Un film labirinto, tra baracche e macerie, il fiume, una certa bellezza indifferente della natura, anacronismi pungenti e severità sommesse, silenziose. Viene in mente (pur nella diversità), l’innocenza di sguardo di Ermanno Olmi, così presente e assente sempre e in egual misura. Il fatto di sgretolare tutti i luoghi comuni sugli zingari delle baraccopoli, però, non costituice parte esibita del film, anzi, se ne sente il retaggio lontano, come ipotesi iniziale in fase preparatoria. Si sta lontani dalla retorica del “come sono buoni i rom” e non c’è l’idea stereotipata di denuncia del progetto di smantellamento di una cominità. Nulla è più efficace di osservare con occhi disponibili all’inseguimento, come quando il piccolo Christi cammina lungo le stradine fangose e ci conduce verso la sera di un giorno come tanti e al tempo stesso diverso. Si fanno più giri, all’inizio, per poter essere ammessi come spettatori. Si deve resistere ad ogni gallery5tentazione di giudizio, di preconcetto culturale, ci si deve adeguare al paesaggio, all’essenzialità, alla dolce crudezza di ogni vita, proprio come le ninnenanne ruvide, in cui si racconta la vita ai bimbi con armoniosa malinconia. Ossimori comuni in tutto il film, dove il meglio e il peggio di riflettono l’uno nell’altro. Restare o andarsene, cambiare o rimanere uguali. Il bello e il brutto di ogni scelta è filmato nello stesso modo, tornando poi sempre al punto di partenza, allo specchio rotto con cui il film finisce, metafora non solo della distruzione di un luogo troppo complesso da poter raccontare interamente, ma anche segno evidente dell’invisibilità di una tanto bruciante parte di reale. Un lavoro durato due anni – da quando i registi hanno appreso dell’imminente distruzione del campo – e portato avanti con caparbietà, per mostrare quello che siamo abituati a non voler vedere. La scrittura della memoria, diventa, così, il metodo. Mostrare il quotidiano evolversi di vite sul punto di cambiare per forza, migliorando e peggiorando, però, come una danza ingiusta di immobilità. Colpisce l’orgoglio con cui questi cittadini dei margini e dell’indifferenza sappiano farsi guardare, colpisce l’austerità di certi loro gesti, adulti o bambini che siano. Ci si rende conto che conoscono l’ingiustizia fin nel profondo, e l’assecondano con una consapevole tristezza che neppure il sorriso sa scacciare.