Il caso Spotlight e il giornalismo che non c’è più

spotlight-dataColpisce per tante ragioni Il caso Spotlight, quinto film di Tom McCarthy, dedicato alla storia vera del gruppo investigativo del Boston Globe chiamato Spotlight, appunto, che nel 2002 (proprio dopo l’attentato alle Torri Gemelle) vinse il premio Pulitzer per l’inchiesta legata agli abusi sessuali perpetrati da più di ottanta preti cattolici della cattolicissima Boston e, più in generale, del Massachusetts. Prima fra tutte per la capacità di McCarthy di ripartire da un genere cinematografico quasi in disuso, forse perché il giornalismo investigativo stesso è recentemente sempre meno incisivo, se non addirittura scomparso. Quella che soprattutto qui si vuole mettere in evidenza, però, è il dispositivo “difensivo” di una storia intricata e scomoda, che si espande fino a coinvolgere l’intero sistema, fatto di avvocati, cardinali, vittime, politici, tribunali, giornalisti e gente comune. Una macchia che si apre sotto i nostri occhi e prende forma, anzi, la perde, perché l’attenzione di sceneggiatori e regista, in questo film, si è focalizzata soprattutto sulla sorpresa di ciascuno dei protagonisti di fronte ai frammenti di verità che si vanno rivelando, fino a disegnare una sorta di mappa ideale, confusa e precisa nello stesso tempo, frastagliata e tentacolare, una contaminazione silenziosa e subdola di cui non avremo mai il controcampo. Un’intuizione quasi casuale e tutto inizia, e travolge le vite dei giornalisti, anche se al loro privato, per fortuna, viene riservato solo qualche accenno, funzionale proprio al lavoro sulla “profondità” verso cui tende ogni immagine e ogni azione. Tutti a cercare prove, dimostrazioni, indizi evidenti da confrontare e mettere alla prova, tutti a scambiarsi conoscenze e scoperte, parole e silenzi. Si costruisce, così, una fitta rete di comunicazioni, si creano raccordi saldi tra gesti, pensieri, immagini ed effetti, appunto, come nei film più solidi, perché solido è il punto di partenza (e non a caso sono piovute la candidature agli Oscar per miglior film, regia, sceneggiatura originale, montaggio e attore e attrice non protagonisti, Mark Ruffalo e Rachel McAdams).

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Infatti l’intreccio di Il caso Spotlight si definisce a partire dalle prove concrete, dai documenti che dimostrano e informano. Un film su un’inchiesta che si trasforma esso stesso in inchiesta, nella sua essenzialità formale. La corsa è frenetica, certo, ma non al punto da sacrificare la precisione per il ritmo. Non si perde mai l’orientamento in questa storia corale e lineare. Non occorrono digressioni o ellissi. Basta seguire il filo di una ricerca ottusa. Il contrario dell’ossessione e della manipolazione (altre volte necessarie ed efficaci al cinema). Qui si segue la logica dei primi piani, che altro non è se non il meccanismo della messa in scena di attori straordinari (Mark Ruffalo, Michael Keaton, Rachel McAdams, Liev Schreiber) efficacemente correlati tra loro. Difficilmente si assiste a tanto equilibrio, risultato di una scrittura minuziosa ma non meccanica, e di una scelta di sobrietà assoluta e vincente. Tutto sta negli sguardi assetati di verità, nei volti, nella dignità di parole che non cercano l’effetto o il pathos. Come quando le vittime si raccontano con dolore e la macchina da presa cerca strade secondarie per mostrare quei volti sofferenti. Non serve andare troppo vicini, né sovraccaricare gli attimi di dramma. Come un giornalista, che si attiene ai fatti, così McCarthy resta legato alla sua linea di semplice accumulazione di informazioni per lasciare allo spettatore il compito di rielaborare tutti i dati. Non c’è retorica, ma solo la profonda passione del racconto, dentro e fuori dalla storia. L’effetto è dirompente. E resta a lungo nei pensieri.