Il corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer e lo sguardo degli altri

 

Nessuno ama nessuno.

Ognuno ama ciò che desidera dagli altri.

E noi amiamo chiunque ci ami per quello che vorremmo essere.

 

In Corsage (in italiano Il corsetto dell’imperatrice) l’imperatrice d’Austria della strepitosa Vicky Krieps non ha più nulla della sognante principessa Sissi incarnata da Romy Schneider: la regista Marie Kreutzer ha deciso di raffigurarla in un momento particolarmente critico della sua esistenza quando sta per compiere quarant’anni (era nata il 24 dicembre 1837). «Una persona a 40 anni si dissolve, si scolora», dice Elisabetta e il medico, quando per calmare quella che il marito identifica come una «frenesia» arriva a prescriverle l’«innocua» eroina, l’oppiaceo da poco scoperto, le ricorda che «è questa l’aspettativa di vita media». Un senso di morte incombente, ricercato e atteso aleggia su tutta la vicenda. Se lo spazio risulta amplificato (Austria, Nord Inghilterra, Italia), il tempo è limitato: dal dicembre 1877 al settembre 1878, nove mesi in cui Elisabetta nasce a nuova vita abbandonando progressivamente simulacri e ossessioni del passato.

Inizialmente Elisabetta di Baviera appare schiacciata dal peso del tempo che passa: l’ossessione del peso corporeo, quasi un rito a cui sottoporsi, la misurazione della vita, l’esercizio fisico sfiancante, il rifiuto del cibo. L’imperatrice, costretta a sottostare alle rigide regole della vita di corte (ben simboleggiate dai lacci del corsetto che Elisabetta fa stringere sempre più quasi a punirsi), è costantemente alla ricerca di uno sguardo – di Francesco Giuseppe, dei sudditi, dell’amato cugino Ludwig, dello stalliere Bay, del pittore che la ritrae… – che le restituisca l’immagine passata per avere la conferma di essere ancora desiderata. Il desiderio ha nella sua etimologia un’accezione negativa. In latino indica infatti la “mancanza di stelle” quindi la percezione di una carenza e, di conseguenza, nel significato corrente, la ricerca appassionata che ne consegue. L’apparenza sembra essere l’essenziale per Elisabetta perché «l’importante è lasciare un bel ritratto». L’immagine restituita finisce però con il corrispondere a una rappresentazione non veritiera, a un ruolo difficile da scardinare (il figlio Rudolf le dice che il padre «ha una certa immagine di noi e non riesce a farsene nessun’altra»).

In un mondo di finzione (Elisabetta sviene quando le fa comodo e poi insegna al cugino come si fa, le basette di Francesco Giuseppe sono posticce, Ludwig indossa una protesi per nascondere i denti marci) a farne le spese sono le persone che la conoscono veramente (la contessa Marie Festetics – sua dama di compagnia e autrice di un diario che rappresenta una delle testimonianze più oggettive sulla vita dell’imperatrice – deve rinunciare a una proposta di matrimonio, l’«ultima occasione» perché, le dice Elisabetta, «solo tu mi ami per come sono»). E se i ritratti non sono veritieri (dal vero l’imperatrice appare più magra) e «le foto non sono oggettive», trovano ampio spazio le riprese di Louis Le Prince, il primo inventore di una cinepresa per catturare le scene in movimento.

 

Poco a poco assistiamo a un processo di ribaltamento (l’anoressia lascia spazio alla bulimia) che passa per la surrogazione (è lei a cercare una giovane amante per il marito, la Festetics, velata, prende il suo posto agli impegni ufficiali) e finalmente di ascesi (rappresentato dal taglio delle lunghe chiome). Un lavoro di sottrazione che porta Elisabetta ad acquisire consapevolezza di sé e del suo ruolo (nelle visite agli ospedali psichiatrici si sente sempre più sintonia con le donne di «natura malinconica» che vengono brutalmente sedate, proprio come è successo a lei, e con i feriti che tornano dal fronte e che l’imperatore rimuove dai suoi discorsi). Un ruolo per cui ha lottato ma che non le è mai stato riconosciuto: possiede molte risorse e  merita più del «ruolo di mera rappresentanza» che il marito le impone (in passato ha provato a coinvolgerla nell’esercizio del potere, salvo poi pentirsene, ma è a lei che si deve la riconciliazione con gli ungheresi: «Chiesi la tua opinione e guarda cosa ci ha portato. Ancora mi biasimano per questo»).

 

La regista Marie Kreutzer in un’intervista ha affermato di essere rimasta colpita dalla figura di Elisabetta di Baviera e in particolare dai suoi «piccoli atti di ribellione: viaggiare quanto più possibile, trovare scappatoie per non partecipare agli eventi ufficiali, evitare di mangiare quando c’era un pranzo ufficiale». Tutti aspetti che contribuiscono a dar vita a «una storia di emancipazione e ribellione contro le aspettative. Una storia senza tempo sull’essere donna». Una grande storia di infelicità e di riscatto.