Jeff Bridges and Cynthia Erivo star in Twentieth Century Fox's "Bad Times at the El Royale."

Il labirinto di specchi di 7 sconosciuti a El Royale di Drew Goddard

Tre anni fa ci aveva pensato Quentin Tarantino a raccontare l’incontro e l’inevitabile scontro di otto sconosciuti accomunati dalla convivenza sotto un unico tetto. Ora gli Hateful sono uno in meno, ma la sostanza fondamentalmente non cambia. In un motel sul confine tra California e Nevada le vite di sette personaggi si intrecciano alla fine degli anni Sessanta. L’incontro si dimostrerà tutt’altro che pacifico e la struttura si rivelerà ricca di segreti e misteri. Sono sufficienti pochi minuti per comprendere quanto Drew Goddard si sia divertito a pensare, scrivere e girare 7 sconosciuti a El Royale. Nascosto sotto una patina neo pulp (che in Tarantino trova sicuramente una fonte di ispirazione), il film è un grande e intricato labirinto di specchi, non solo perché il ruolo dello sguardo (del regista demiurgo, dei protagonisti e dello stesso spettatore) è alla base della costruzione tematica, ma anche perché il complesso sviluppo narrativo mette al centro personaggi sinistri e misteriosi dei quali sarà difficile fidarsi. Nella prima parte, il cineasta americano sembra lavorare esattamente come fece con il sorprendente Quella casa nel bosco (2012), rielaborando il genere horror a dinamiche più contemporanee senza dimenticare l’importante ruolo dello schermo (cinematografico o televisivo che sia). Anche a El Royale gli schermi la fanno da padrone, così come la rilettura moderna dell’archetipo noir.

 

Peccato però che poco alla volta quello che verrà meno sarà il senso della misura. Il film infatti si guarda allo specchio tanto quanto il suo regista, riscoprendosi un po’ troppo vanitoso ed egocentrico. Goddard (forse ormai stregato dai tempi televisivi che ben conosce) allunga il tutto in maniera eccessiva senza mai rinunciare a qualsivoglia trazione, narrativa o tematica. Giocando quindi per accumulo, il disegno complessivo fatica a risultare calzante nelle vesti di un lavoro tutto sommato divertente, caciarone e probabilmente più incisivo e vincente nella forma spumeggiante e fresca invece che nella sua struttura più autoriale. Il parallelismo tra l’America di quegli anni e quella contemporanea a tratti risulta troppo ingombrante ed esplicito, quasi come se Goddard non volesse perdere alcun dettaglio per (ri)costruire al cinema la Storia odierna (i riferimenti spaziano dalla presidenza di Nixon a JFK, passando per il Vietnam e la famiglia Manson). Ci si perde e si corre il rischio di rimanere meno appagati del previsto una volta arrivati alla fine di questa caleidoscopica sfilata di maschere e colori. Eppure, resistere al suo richiamo più viscerale è davvero complesso. Quindi tanto vale concedere una possibilità.