Esordio alla regia di un lungometraggio per Josiah Allen e Indianna Bell, che descrivono l’attesa in tutte le sue sfumature e da svariati punti di vista. Perché l’attesa fa paura più della violenza e per Patrick sembra che questa condizione sia destinata a moltiplicarsi all’arrivo, nella sua roulotte, di una sconosciuta. Fuori la tempesta imperversa e la ragazza ha bisogno di un telefono e di un riparo, ma l’uomo non ha telefono e quello più vicino è dentro il campeggio, ora chiuso per la notte. Ecco il presupposto, ritagliato sui due personaggi, l’uno contro l’altro, l’uno spalla dell’altro o anche riflesso. Tutto può accadere dentro questa atipica casa, piena di stanze, angoli, tende… e tutto o niente può essere già accaduto. Il tempo è più che mai arbitrario perché si strappa aprendo fessure che lasciano intendere una storia diversa da quella che quei due corpi, a parole o gesti, ci/si stanno raccontando e che non conosceremo mai nel dettaglio. In fondo la luce manca per quasi tutto il film e nel buio dei luoghi si smarriscono anche certe derive della narrazione.

Josiah Allen e Indianna Bell (che scrive anche la sceneggiatura), indugiano con coerenza sul testo centrale, giocando con le allusioni e con certi cliché del genere, per poi cambiare rotta e senza mai andare fino in fondo. Ci si aspetta un colpo di scena che non arriverà mai, né per lo spettatore, né per i due personaggi, che, al contrario, sembrano spingersi in una sorta di battuta di caccia fatta di prove e indizi, in quel microcosmo claustrofobico dove è difficile anche aprire le finestre. Impossibile stabilire, quindi, chi è la preda e chi il predatore. Quali siano le intenzioni di ciascuno e le singole e personali verità. Attraverso una messa in scena semplice (talvolta anche esile), scelte cromatiche che esasperano il non visto e dialoghi che invece, si interrogano sul non detto, Allen e Bell cercano di indagare l’animo umano e i meccanismi psicologici che la colpa genera nella mente di un presunto serial killer, impantanato nei ricordi sanguinolenti, nei colori di terra e di sangue. Rossi, gialli, blu, accesi per pochi secondi dai continui bagliori della tempesta e subito spenti da ombre ben più incombenti, come gli oggetti allestiti in una sorta di tempietto lugubre dei cimeli. Tutto acquista un senso preciso ma al tempo stesso tutto è lasciato andare, perché in questo film non ci possono essere appigli attorno a cui tessere una eventuale ricostruzione dei fatti. Prevale lo scorrere inesorabile verso una conclusione che, in ultima analisi, giustifica e riempie di senso le attese di cui si diceva, eppure, quel grumo di malessere, che nel film si è fatto fisico, scontrandosi con i rumori, scavalcando gli oggetti e glissando gli eventi, resta come dato tangibile di un’ossessione. Non sapremo se vera o anch’essa frutto di un incubo profondo.


