Il silenzio e la malinconia: Così com’è di Antonello Scarpelli

“… il calabrese “vuole essere parlato”. Bisogna parlargli
come a un uomo che ha sentimenti, doveri, bisogni, affetti: insomma, come a un uomo.”
Corrado Alvaro da Un treno nel sud, 1958

 

 

Così com’è, il film dell’esordiente Antonello Scarpelli, che direttamente si mette in gioco in questa sua prima esperienza cinematografica tra il narrativo e il diaristico, tra il confessorio e il malinconico di ciò che si perde con la cancellazione della memoria, sembra dominato più dal silenzio che dalle parole, più dal non detto che da ciò che i dialoghi ridefiniscono in questa famiglia, una tra le tante, calabresi, vittime di una diaspora economica che non trova soluzione e via d’uscita. Emilia e Francesco sono una coppia che si avvia all’anzianità e con l’età arriva la diagnosi di Alzheimer per Francesco. Antonello (lo stesso Scarpelli), il figlio minore, vive fuori, in Germania. Emilia e Francesco decidono di andare a trovarlo per parlare di persona della situazione familiare alla luce della malattia. Il viaggio si rivelerà forse inutile, ma forse accorcerà le distanze e tutto sommato servirà a dare nuova vita ai legami familiari. Una vicenda che ricorda, nel suo svolgersi prima e poi sullo schermo, quella di Vittoria di Cassigoli e Kauffman. Un cinema che ancora una volta con la sua drammatizzazione originaria si sovrappone alle vicende vissute dei suoi protagonisti. È in questa atmosfera di silenzio, a volte insostenibile a volte leggero, che si sviluppa l’esile storia del film dentro il quale, però, si sentono forti quei legami familiari e soprattutto quelli che legano la coppia Emilia e Francesco.

 

 
Non c’è disperazione nel racconto, né Emilia, interpretata dalla stessa Emilia Pisano personaggio fulcro del film, si concede mai una lacrima, un gesto disperato. Il suo rabbuiarsi è intimo e neppure il cinema, con la sua immagine rivelatrice, è capace a far venire fuori quel dramma trattenuto. È la consegna di un silenzio che probabilmente domina la “calabresità” dei personaggi e nella sua silenziosa essenza il film di Scarpelli sa cogliere il senso di una incapacità a mostrare tutti interi i sentimenti, che è cosa piuttosto rara nel cinema laddove, invece, il senso del legame con l’altro, il senso di malinconia irresolubile e la distanza che interrompe la comunicazione anche dei sentimenti, diventa tema dominante, forma espressiva primaria e feconda di narrazione. Scarpelli sembra trattenere invece che mostrare, lavorare su una certa malinconia propria delle immagini e soprattutto nella parte tedesca del film, in fondo la parte principale laddove si sarebbe potuto dare sfogo a quel desiderio di confessione e di ricerca di solidarietà, diventa, invece il momento in cui si acuisce la distanza, sembrano azzerarsi i rapporti e farsi più lontane le vite. Complice proprio quella fotografia malinconica, quella Germania inesistente, né bella, né brutta, ma che sembra silenziosamente e rispettosamente assistere con le sue luci notturne, le sue malinconiche strade ferrate, i suoi locali pubblici silenziosi, al dramma familiare che si consuma e si aggrava tra le sue vie e i suoi luoghi senza memoria.

 

 
Nelle parole di Corrado Avaro si coglie proprio questo silenzio che domina la vita in Calabria, un silenzio che può essere rotto solo da una attenzione, da un interesse che spezzi lo scorrere quieto del silenzio. In questo senso Così com’è – titolo quanto mai fatalistico, in linea con questo filo di pensiero – si attesta come un film pienamente calabrese, radicato dentro questa sua cultura che non sembra, nonostante il tempo che passa, sradicabile, in una immutabilità che da Alvaro in poi, ma viene ancora da più lontano, sembra eterna. È proprio dentro questo mood, si direbbe, che il film, che a tratti denuncia una sua fragilità che diventa segno di un desiderio di rompere quel silenzio che la tradizione impone di rispettare, in un sottotraccia anche qui discreto torna sul tema della distanza dei legami familiari. In una delle ultime sequenze Francesco è seduto in veranda con due amici a sorseggiare grappa e il discorso cade sulla lontananza dei figli e uno dei personaggi dice “Non toccare questo tasto, tutti abbiamo figli fuori”. La battuta chiude un altro tema del film – sottaciuto anche questo – che è quello di una diaspora non risolvibile, di una fuga che non è solo di cervelli, ma anche di corpi da abbracciare, che riguarda da nord a sud il territorio calabrese e i suoi abitanti. Lo aveva capito già Alvaro quando scriveva: “La fuga è, dunque, oggi, il tema della vita calabrese. Lo è sempre stato in qualche modo, ma oggi si ha l’impressione d’una primitiva tribù che abbandona una terra inospite. E ciò è tanto più crudele in quanto la loro terra è bella”. Scarpelli, che con questo suo film ha vinto il Concorso lungometraggi al Festival di Bellaria, anche qui risolve nel silenzio quasi urlato questo dramma e la sua figura silenziosa nelle ultime immagini del film racconta meglio di mille parole questa distanza sentimentale e le sue parole quasi biascicate per confessare una sua codardia si possono leggere come il desiderio di parlare dopo le attenzioni ricevute dai suoi genitori. Poi domina di nuovo il silenzio su Celico e sul resto dei calabresi.