Il valore del campione: Air – La storia del grande salto e il ritorno alla regia di Ben Affleck

Non dirigeva un film da sette anni, Ben Affleck (lo sfortunato La legge della notte è del 2016), e ne sono passati addirittura undici da quell’Argo che lo aveva portato in cima al mondo, con tanto di vittoria dell’Oscar per il miglior lungometraggio. Air ha così sia il sapore del ritorno che del risalire la china e appare la storia perfetta per questo cantore di uomini alle prese con sfide più grandi di loro, come il rifarsi una vita dopo anni da rapinatore (The Town) o portare a compimento una impossibile missione di esfiltrazione (il già citato Argo). A questo potremmo anche aggiungere un altro elemento: che Air – La storia di un grande salto è il primo progetto della società Artists Equity, fondata dallo stesso Affleck con l’amico e collega Matt Damon per realizzare film dalle buone possibilità commerciali, ma comunque distanti dalle logiche odierne dei franchise. In pratica quel “buon cinema medio” americano che più di tutti sta soffrendo lo svuotamento delle sale e risulta ormai incapace di attrarre il pubblico. La speranza di invertire la tendenza in atto non è dunque sfida meno ardua di quella compiuta dalla Nike di Phil Knight (interpretato dallo stesso Affleck) con il team formato da Sonny Vaccaro (Matt Damon), Howard White (Chris Tucker) e Rob Strasser (Jason Bateman) quando, nel 1984, lanciarono il marchio Air Jordan, modellato sull’omonimo astro nascente del basket, rivoluzionando di fatto il mercato.

 

 

Mai nessuno prima di allora aveva modellato una scarpa su un nome dello sport e, soprattutto, l’idea di “brandizzare” un campione – oggi moneta corrente delle dinamiche tra sponsor e atleti – era davvero un territorio inesplorato. C’è di più: come il film ben spiega, fu la madre di Jordan, Deloris (interpretata da Viola Davis) a imporre che una percentuale delle vendite andasse al figlio, legando a doppio filo l’attività sportiva al merchandise, con la (giusta) rivendicazione che in fondo se soldi si producono, è corretto che chi scende direttamente nell’arena debba poterne ottenere una parte. Un’autentica storia americana, insomma, che Affleck dirige con il consueto buon polso, triangolando fra i vari personaggi che creano un plot dinamico e corale, come il passaggio continuo di una palla sul campo. Se Damon è di fatto il protagonista, il piccolo esperto che lavora in una stanza minuscola e ha l’intuizione giusta per guidare il team alla vittoria, di fatto un po’ tutti contribuiscono a creare un mosaico di varia umanità, che in tal modo appare congruo con la ridefinizione del mondo che alla fine la storia ottiene. Al contempo, Affleck è sufficientemente furbo da giocare di sponda con l’estetica anni Ottanta, senza insistere troppo, ma tenendola sempre presente all’occhio dello spettatore, grazie a una specifica palette cromatica, insieme a un casting e una scenografia che appaiono sempre coerenti. Altrettanto fa la colonna sonora, azzeccata e comunque sempre “riconoscibile” dagli appassionati del decennio in questione. Affleck, insomma, fa quello che la Nike compie su Jordan, costruisce un modello estetico e promozionale che renda il suo film attrattivo e vincente.

 

 

In tutto questo, a colpire di più è quello che non si vede, ovvero la possibile critica di un modello che era specifica dei precedenti lavori dell’autore: dalla Boston criminale di The Town all’Iran di Argo, i contesti in cui i personaggi portavano avanti le loro sfide erano gabbie da cui gli stessi volevano fortemente uscire. Viceversa, stavolta gli sforzi di tutti sono finalizzati al cercare di portare a casa un pezzo della torta della New Economy reaganiana. Sebbene lo script cerchi in tutti i modi di sottolineare la caratura umana sottesa alla vittoria – Michael Jordan è prima di tutto il figlio dei suoi genitori, Vaccaro è un perdente che si gioca tutto pur di ottenere per una volta la soddisfazione professionale – non si può nascondere come tutto appaia una vacua esaltazione della produzione della ricchezza, tipica del capitalismo più sfrenato. La stessa, per intenderci, che ha trasformato lo sport odierno in una detestabile monetizzazione fondata sul valore dei campioni, con gli atleti che fanno parlare di sé più in quanto brand perpetuo che per le loro imprese sportive. Ipotesi resa ancor più calzante dall’idea sottesa al racconto, che il basket stesso abbia beneficiato della lotta di Vaccaro e soci, diventando grazie al nuovo accordo uno sport di primo livello. La sensazione finale è perciò che Affleck e Damon giochino con dinamiche più grandi di loro senza vederne tutte le implicazioni anche più problematiche, perché troppo impegnati a cercare di risultare gradevoli al pubblico. Un po’ come quel Michael Jordan di cui non vediamo mai il volto, fantasma del desiderio, “irriproducibile” secondo Affleck e perciò non affidato a un attore, ma la cui assenza d’identità odora fin troppo di compromesso commerciale non raggiunto con l’icona-brand.