Una certa tendenza del cinema iraniano ci ha abituati a storie in connessione, storie soprattutto di donne che si intersecano a vario titolo, scivolando e descrivendo nel particolare situazioni universali. Una strada aperta con grande risonanza da Il cerchio di Panahi, e poi declinata in forme e modi diversi e personali di film in film, di regista in regista, dagli intrecci di Farhadi, fino al bellissimo Tales (Ghesseh-ha) di Rakhshān Bani-E’temād. Il cerchio, dunque, come idea claustrofobica di impotenza, l’impossibilità di uscire da un meccanismo vizioso che lega e trattiene fisicamente i personaggi. È questo anche il percorso di Acrid, opera prima del trentaquattrenne Kiarash Asadizadeh (dopo una serie di cortometraggi realizzati tra il 2001 e il 2008), che si insinua nella famiglia borghese iraniana per mettere in crisi proprio i germi dell’instabilità. Lontano dal voler realizzare un’indagine sociologica, Asadizadeh ruota attorno ai personaggi e li segue con sguardo silenzioso. Non aggiunge nulla a quello che la macchina da presa può cogliere dai gesti e dai silenzi di queste quattro donne, tradite e ora aspre nel loro rapporto con la vita. Si muovono e si relazionano con gli altri in modo ostile, stabiliscono una netta cesura rispetto a ciò che li circonda.
Trascurato dalla critica e da una distribuzione ristretta, Acrid racconta di Soheila, medico in una clinica per bambini, sposata ad un uomo che la tradisce in continuazione con le segretarie del suo studio. L’ultima assunta, però, è segretamente sposata, e in fase di divorzio da un marito che la tradisce con una insegnante di chimica, divorziata e in ansia per la sorella maltrattata da un marito bevitore e violento. Un gioco ad incastri e ripetizioni quasi paradossale e senza fine, dove nessuno è buono o cattivo ma semplicemente inconsapevole delle conseguenze che ogni gesto compiuto può provocare sugli altri. Fino alla giovane studentessa Masha, figlia di Sohelia, che torna in lacrime a casa dopo aver scoperto il tradimento da parte del fidanzato. E potrebbe non finire mai questo racconto che, infatti, inizia già da una sorta di fine e si prolunga estendendo la propria ombra su tutto. Queste donne sole, chiudono dietro di loro porte rumorose e sorde, hanno smesso di ribellarsi e accettano lo stato delle cose. Per questo camminano come se nessuno potesse vederle, perché di fatto nessuno le vede davvero nella loro identità, nella differenza che esprimono sui volti ormai trasfigurati. Pian piano finiranno per assomigliarsi tutte, con il loro velo e la rabbia soffocata. Saranno figure spoglie e malinconiche, fuggiranno o semplicemente interpreteranno ogni giorno la stessa parte di discrezione.
Il pregio di Acrid sta nel voler essere un film semplice e sobrio, quasi scarno. Nel non dover spiegare nulla, perché sa insinuarsi nel cuore delle cose e dentro discorsi che è impossibile non considerare politici. Acrid è un film sul silenzio e sulla finzione che spesso immobilizza il reale. Un film fatto di passaggi vertiginosi e di coraggiosi salti di campo. Spezzato e nervoso nella forma, sembra, al contrario, resistere al passare del tempo, come se ognuna delle protagoniste cercasse di trattenerlo, immobilizzando lo scorre inevitabile, la chiusura di quella linea che si allarga come i cerchi concentrici nell’acqua divenendo, come si diceva, sinonimo e metafora di prigionia.