Innanzi tutto: Blonde non è un biopic. O, meglio, è un biopic alterato, praticamente narrato in soggettiva: un oggetto disturbato e disturbante, bulimico, implacabile. Nel tradurre in immagini il monumentale romanzo di Joyce Carol Oates – anche qui: un romanzo, non una biografia – dedicato a Marilyn Monroe, Andrew Dominik ne sposa, con tutti i rischi, l’approccio e il punto di vista. Che è appunto quello del flusso narrativo irregolare, dell’associazione di idee, dell’allucinazione, dell’ipotesi ossessiva. I traumi di Marilyn (anzi di Norma Jeane Baker, ché il personaggio Marilyn non era ancora stato “inventato”) nascono dalle ceneri della sua casa divorata da un incendio, da una madre insoddisfatta e presto rinchiusa in una clinica psichiatrica; da un padre sognato e mai conosciuto che la osserva dall’orlo di una fotografia sgualcita, da un’infanzia rubata a cui tenterà inutilmente di dare redenzione. Ma la redenzione non è di questo mondo e i dolori della giovane Norma diventeranno le ferite, sempre più atroci, dell’attrice più popolare del mondo. Blonde racconta la costruzione di un’icona e la distruzione di una persona; ci porta dentro la scissione sempre più insanabile tra immagine pubblica e sentimento privato, tra Norma e Marilyn. In questo Blonde è quasi un body horror: un film su una donna che abita un corpo che non sente più appartenerle, che al di fuori fa sognare e dentro di sé porta le ferite degli incubi, che fa esplodere l’immaginario erotico ma che è continuamente abusata, che vive gli echi di figlia indesiderata attraverso una continua negazione della maternità.
Dominik mette in scena l’inferno senza mai dare punti di riferimento: cambia formato, alterna bianco e nero e colore, inonda lo schermo di ricostruzioni filologiche di abiti, fotografie, scene di film. Una riproducibilità talmente ossessiva da mettersi, consapevolmente, sotto scacco. Marilyn non è necessariamente QUELLA Marilyn, ma solo una delle tante possibili (quasi un ossimoro, per lei che era davvero unica), ridotta a merce assoluta, abusata nel corpo e abbandonata nei sentimenti, masticata, ingoiata, torturata dal mondo maschile che la brama e allo stesso tempo la devasta. Ana De Armas si concede anima e corpo – che, come visto, sono personaggi differenti, mai coincidenti – a questa operazione di mimesi che sembra una seduta di anatomia, un rito collettivo di cannibalismo, una mattanza. Blonde è un film che si rivolge continuamente allo spettatore invitandolo al banchetto funebre, a farsi complice della morte al lavoro sullo schermo. Nel giungere al parossismo, Dominik infarcisce il racconto di momenti di pessimo gusto, di feti parlanti, di soggettive di una vagina e di una tazza del cesso, contribuendo al senso di nausea che il film – in completa e irriducibile contestazione dell’ambiente teoricamente mitico che va raccontando – trasmette: l’annientamento di una vittima in un mondo brutto, sporco, cattivo.
La società dello spettacolo come luogo inabitabile per una donna sempre attorniata da uomini – predatori, quasi sempre; insensibili, a volte – ma drammaticamente sola. La messa in scena di Dominik è onnivora, lavora per antinomie e accumuli, volutamente eccessiva e ossessiva. Ma forse Blonde è l’unico film possibile su questa vittima inafferrabile, su questo simbolo sessuale continuamente vessato e sfruttato. Un j’accuse che traduce in immagini, sfidando il ridicolo e l’inqualificabile, l’intraducibile romanzo di Oates. Una seduta spiritica che sbatte davanti ai nostri occhi di spettatori la rappresentazione di uno stupro reiterato dai simboli del potere, che siano produttori hollywoodiani o presidenti rapaci. Blonde, nel suo voler essere estremo (e infatti ha suscitato reazioni veementi, contrapposte, inconciliabili) sfida a testa bassa buon senso e convenzioni, scarta da ogni scelta semplicistica per abbracciare una contestazione radicale contro la società dello spettacolo – politica, cinematografica, letteraria – con l’unico strumento che al cinema ancora resta: quello delle immagini.