La folle vita di Ann Sirot e Raphaël Balboni: una lezione di vita

Alex (Jean Le Peltier) e Noémie (Lucie Debay), trentenni, stanno pensando di fare un figlio. Ma i loro piani sono sconvolti dallo strano comportamento di Suzanne (Jo Deseure, bravissima), la madre di Alex: le sue carte di credito vengono rifiutate perché non coperte, ruba oggetti nei negozi, ha firmato da tempo per la pensione ma continua a lavorare nella sua galleria d’arte a Bruxelles ritrovandosi a dover restituire al fisco una somma importante… Il responso a seguito degli accertamenti medici non lascia scampo: è affetta da demenza semantica (Une vie démente è il titolo originale). Non può più stare da sola e così Kevin (Gilles Remiche), badante a tempo pieno, entra nella sua vita, e con il passare del tempo e il peggiorare della malattia le viene tolta l’auto, per lei sinonimo di libertà. Un fulmine a ciel sereno che ha delle ripercussioni sulla vita di tutti: il progetto del figlio viene rimandato a data da destinarsi, visto che è la madre a tornare bambina.

 

 

L’esordio nel lungometraggio dei belgi Ann Sirot e Raphaël Balboni – il film è del 2021, nel frattempo la coppia ha realizzato Le syndrome des amours passées presentato alla Semaine de la critique all’ultimo Festival di Cannes – parla di genitorialità al contrario, di malattia degenerativa, di accettazione e di vita che continua nonostante tutto. Una commedia che alterna toni leggeri ad altri più cupi e riesce a mantenere l’attenzione sul malato (Suzanne è una forza della natura e continua a esserlo nel momento in cui non è più consapevole delle sue azioni), ma anche su chi gli sta accanto: Alex inizialmente non accetta i cambiamenti irreversibili della madre e per questo decide di rinunciare alla paternità, considerando la situazione «una parentesi», mentre Noémie, ben consapevole della situazione («Si stabilizzerà quando muore», finisce per dire al compagno), sa che bisogna imparare a convivere con la malattia e riesce a coglierne gli aspetti positivi (fotografa Suzanne gioiosa mentre lava la sua auto con una spugnetta scatenando l’irritazione di Alex: «Non riesco più a vedere che è felice. Riesco solo a vedere che non è più lei»). Alex, da parte sua, deve compiere tutti i passaggi (dalla separazione alla sedazione) che lo porteranno ad accettare la situazione finendo per riconoscere la madre in questa nuova fase di vita (e solo a questo punto riuscirà a fotografarla in un momento di gioia).

 

 

Un film rigoroso – con l’avanzare della malattia punteggiato dalle immagini dell’opera in trasformazione Dead Star Funeral dell’artista plastica Stéphanie Rolland – che parte da un’esperienza vissuta dai due registi e che, nello stesso tempo, utilizza in maniera originale la fantasia, come a voler fronteggiare l’assurdo della situazione: dal punto di vista formale, Sirot e Balboni scardinano le riprese frontali in chiave antinaturalistica attraverso la scelta cromatica di abiti che rispecchiano il loro stato d’animo e si accordano allo sfondo in cui vengono a trovarsi per colloqui con persone che non vediamo mai, ma di cui sentiamo la voce. Dal giallo solare della prima visita dal ginecologo all’azzurro algido per la visita dalla specialista in malattie neurodegenerative al grigio funereo dell’incontro con il funzionario di banca. Stessa cosa succede con il copriletto e la carta da parati della camera da letto di Alex e Noémie che a poco a poco prendono il sopravvento, finendo per fagocitare e assorbire sempre più la coppia (soprattutto Alex). Solo accettando il cambiamento è possibile andare avanti. Una grande lezione. Di cinema e di vita.