La messa in scena straniante di Il Maestro e Margherita di Michael Lockshin

Mosca, anni Trenta. Un affermato drammaturgo, il Maestro, sta allestendo la sua opera più ambiziosa, incentrata sul processo a Gesù condotto da un combattuto Ponzio Pilato. Ma il testo viene considerato oscurantista e ai limiti del sovversivo dall’apparato staliniano, per cui lo scrittore cade in disgrazia. L’incontro casuale con la bella Margherita Nikolaevna, di cui si innamora ricambiato nonostante ella non sia sentimentalmente libera, lo induce a cimentarsi con un romanzo in cui Satana (nelle eleganti quanto inquietanti vesti di Woland) visita la capitale sovietica, deciso a punire la prima società civile dichiaratamente atea che, rifiutando Dio, misconosce la sua stessa esistenza. A questo punto, realtà e immaginazione si mescolano e la storia personale del Maestro si intreccia costantemente con quella del diavolo e del suo entourage (tra cui il crudele gattone antropomorfo Behemoth), come anche con i personaggi del libro in costruzione (ispirato nella ricostruzione più antica all’apocrifo Vangelo di Nicodemo), con le diverse figure della società sovietica che interagiscono con l’autore. Tra i vari progetti mai realizzati di adattamento cinematografico di Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov  capolavoro polisemantico, satiricamente allegorico e in buona parte autobiografico, “maledetto” oltre che censurato, incompiuto e infine pubblicato postumo – ce ne sono non pochi attribuiti ad autori di rango assoluto (Roman Polanski, Federico Fellini, Terry Gilliam, Baz Luhrmann), che si sono arenati nel corso dei decenni di fronte alla sua apparente intraducibilità.

 

 
Quello che per i russi è il romanzo per eccellenza del Novecento, ha fatto vittime anche tra coloro che ci hanno effettivamente provato, sebbene una produzione italo-jugoslava del 1970, diretta da Aleksandar Petrović e interpretata – dopo la rinuncia polemica di Gianmaria Volontè – da un fantastico Ugo Tognazzi (affiancato da Mismy Farmer), sia ricordata perlopiù positivamente in terra russa. Il tentativo dell’americano-russo Michael Lockshin, alla seconda regia, è invece arrivato tranquillamente in porto, forse senza incantare fino in fondo i più accaniti estimatori di Bulgakov, ma certo senza schiantarsi, anzi attirando frotte di spettatori nelle sale russe. Ciò, quantomeno, prima di incappare a sua volta nella censura per le posizioni filo-ucraine palesate del regista, che affiorano nel film, in particolare nell’insistenza con cui si accenna alla Crimea (citata invece solo marginalmente in un episodio nel romanzo) e, soprattutto, nella ricostruzione d’epoca di Mosca, che sembra indulgere più ad architetture alla Albert Speer e scenografie naziste che non a quelle del primo periodo staliniano, cosa che all’attuale dirigenza russa dev’essere piaciuta poco. Il regista rivede l’ordine della storia, giocoforza semplificandola, ma senza arrendersi a uno svolgimento banalmente cronologico che l’avrebbe resa sicuramente più comprensibile ma al contempo brutalizzata, azzerandone la complessità – peraltro sempre abbinata a leggerezza e musicalità straordinarie – che costituisce uno dei pregi (certo non l’unico) del libro. La frase in epigrafe al romanzo, attinta dal Faust di Goethe, racchiude l’interrogativo che apre pure il film, rivolto al Principe delle Tenebre, con tanto di sibillina risposta: “Ma allora chi sei tu, insomma? Sono una parte di quella forza che eternamente vuole il male ed eternamente compie il bene”.

 

 
Ma c’è un’ulteriore asserzione che impregna la trasposizione cinematografica, assumendo valenza perfino maggiore, quasi un mantra moderno che sa riassumere in sé densità e attualità senza tempo, ovvero “i manoscritti non bruciano”. Una locuzione che – pensando alla vicenda esistenziale e creativa di Bulgakov – assume significato di rara potenza, ma che anche più in generale simboleggia la resistenza e l’immortalità delle idee e delle opere creative di fronte a tentativi di censura o distruzione, considerato che le parole scritte, una volta create, non possono essere cancellate completamente, vivendo invece nella memoria, nella storia o, più banalmente, nelle riproduzioni. Il Maestro e Margherita ha una messa in scena rutilante, quasi da kolossal hollywoodiano in costume e presenta elementi allucinati che lo rendono mirabilmente straniante, sebbene nel finale non manchino un paio di cadute di stile, concessioni al kitsch che risaltano nella rappresentazione del fantasma che sorvola la metropoli. Eppure, nonostante il ritmo ondivago e la dilatazione dei tempi narrativi che cede il passo verso la fine a un’accelerazione per certi versi eccessiva, il film merita di essere visto, convincente pure nella conclusione che si allontana da quella – composita e più articolata – del testo originario, comunque aderente alle aspettative più pragmatiche e meno romantiche della società odierna.