La risoluzione del puzzle: John Wick 4, di Chad Stahelski

Uno degli aspetti più interessanti della saga di John Wick riguarda il modo cui il protagonista affronta i suoi (innumerevoli) avversari: uno stile che unisce l’abilità sovrumana nell’uso delle armi da fuoco a una pratica del corpo a corpo fatta di tecniche marziali molto fisiche e poco acrobatiche. Il risultato è un peculiare intreccio di precisione balistica e proiezioni, prese e forbici tipiche di arti come il judo, il ju jitsu, l’hapkido e la lotta greco-romana, che se singolarmente possono offrire una forte sensazione di realismo, nella loro mescolanza forsennata generano un impatto visivo tremendamente spettacolare. Si crea in questo modo un’impressione di familiarità, che però allo stesso tempo è differente dalla norma e percepita come novità. La cosa assume caratteristiche ancora più spiccate considerando l’attore interessato, quel Keanu Reeves che nella saga di Matrix era partito dalla già fortemente coreografica influenza dei gongfumovie di Hong Kong e l’aveva portata alle estreme conseguenze acrobatiche attraverso le tecniche del bullet time e dell’uso avanguardista degli effetti speciali. La saga di John Wick ha perciò il sapore sia dell’ammenda che del passo successivo rispetto a una visione peculiare del combattimento che Reeves conduce da vari decenni (ricordiamo che in mezzo c’è stata anche una sua regia nel campo, Man of Tai-Chi).

 

 

Il progetto della quadrilogia, in fondo, è tutto qui, nel modo in cui parte da elementi noti e li eleva, pur stando ben attento a non cadere nella mancanza di familiarità per lo spettatore: è per questo che i film riescono a far passare indenni concetti altrimenti un po’ ostici da digerire, dalla violenza forsennata, all’implausibilità generale della resistenza insita nel protagonista. Oltre naturalmente alla totale mancanza di un qualsivoglia approfondimento psicologico, che si riflette in un protagonista-ombra, perennemente in nero e di pochissime parole, la cui definizione è affidata ai dialoghi di chi lo accompagna o affronta (“una leggenda”, “un amico”, la “baba yaga”). Tutti gli elementi sono insomma ben dosati partendo da quanto già si conosce: c’è un po’ dei revenge movie alla Charles Bronson, con Wick agisce in modo quasi meccanico per ritorsione contro chi gli ha fatto del male); c’è il gusto esotico della cospirazione le cui fila sono tirate da misteriosi e eleganti nemici, che si muovono sullo sfondo di uno scenario internazionale come nella saga di James Bond; e c’è la logica un po’ da film videogame che sta ormai ritagliandosi un certo spazio nel panorama contemporaneo (si pensi a un film per il resto comunque risibile come Guns Akimbo). Soprattutto, però, c’è un gusto per il sincretismo anche attoriale, che mescola volti finora rimasti abbastanza in seconda fila (il compianto Lance Reddick), caratteristi di razza (Ian McShane), solidi coprotagonisti (Willem Dafoe, John Leguizamo, Laurence Fishburne), vecchie e nobilissime glorie (Anjelica Huston, Franco Nero), addirittura attori italiani a noi molto noti, ma di certo non habitué del panorama internazionale (Riccardo Scamarcio e Claudia Gerini nel Capitolo Due). E poi c’è il recupero di grandi nomi dell’action internazionale come Mark Dacascos e, in questo quarto film, un sorprendente Scott Adkins e i grandi Hiroyuki Sanada e Donnie Yen.

 

 

Proprio Yen è una figura cardine per capire l’evoluzione che la saga ha avuto da un primo capitolo più contenuto a epica saga che ha perforato l’immaginario globale rastrellando incassi da blockbuster: perché, in fondo, quello che si è fin qui scritto di John Wick rappresenta lo speculare esatto di quanto l’attore cinese ha fatto con Ip Man. In quattro pellicole Yen ha di fatto riscritto la percezione del film di arti marziali, lanciando un’iconografia e uno stile che si poggia su elementi noti (le pellicole di Bruce Lee, di cui Ip Man fu maestro) spostandone poi la percezione in un terreno percepito come nuovo. Non è quindi un caso che, al pari di quanto Reeves ha fatto di suo, anche Donnie Yen qui compia una sua peculiare ammenda e al contempo evoluzione rispetto al proprio percorso, passando dal realismo del Wing Chun, alle tecniche di un novello Zatoichi che sconfigge frotte di nemici senza problemi pur essendo sprovvisto della vista. Resta dunque poco da aggiungere sulla storia di questo John Wick 4, che vede il protagonista continuare la sua crociata, stavolta opposto a un marchese francese che ha ottenuto dalla Gran Tavola i pieni poteri per sbarazzarsi dell’invincibile assassino-eroe. Il duello fra i due potrebbe fornire a John finalmente la chiave per chiudere il conto, ma in mezzo ci sono vari antagonisti e centinaia di comparse armate che vogliono riscuotere la taglia sulla sua testa. Naturalmente da abbattere nelle strade o nei locali più affollati con la consueta nonchalance cui la saga ci ha abituato, in una dinamica a metà fra il film-videogame (ribadiamo) e l’autentica performance totale di un Keanu Reeves costretto letteralmente a non fermarsi mai lungo l’infinita durata del viaggio (il film è anche il più lungo della saga). Chad Stahelski, che fin dall’inizio ha curato la folgorante messinscena, stavolta non nasconde le carte, riecheggia direttamente le visualità degli sparatutto (si veda il bellissimo piano sequenza aereo in uno dei tanti ambienti attraversati dal film), strizza l’occhio alla qualità “cinofila” della saga con uno degli avversari che usa un cane come aiutante. E così, ancora una volta compie il suo miracolo: riecheggia sentieri già battuti ma li presenta come nuovi, in un gioco di perfezionamento del meccanismo che deve incasellare gli ultimi pezzi del puzzle (visivo e narrativo) fino alla tanto agognata conclusione.