La struttura trinitaria di Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera

Di figlio in padre in figlio, una e trina questa preghiera in forma di film. Questa bobina, questo documentario biografico su Tarkovskij, è un affastellamento di tracce parallele, visive e sonore, continue come una litania, che si snodano nelle mani del suo autore Andrej Andreevič, per riavvolgersi alla fine all’indietro, in una splendida sequenza finale di fotografie del padre Andrej, leggendario autore di film, dagli ultimi anni della sua vita alla prima infanzia. Tutto viene così riportato a quell’iniziale risveglio del bambino che chiama “papà”, con cui si apre il documentario. Un’emozione non da poco per chi ha amato il cinema di Tarkovskij, e un’occasione ghiotta per chi deve ancora scoprirlo. Le tracce che si alternano o sovrappongono sono diverse, dalle sequenze memorabili del padre regista (sin dal primo saggio di regia Il rullo compressore e il violino, t.o. Katok i Skripka, del 1961), a un’indagine visiva, incantata, sui luoghi del padre, condotta per anni con tre diverse troupe, una russa, una italiana e una svedese, e poi ancora l’archivio immenso di lettere, sceneggiature e fotografie di un’intera vita, dall’infanzia alla morte, raccolte dal figlio nell’”Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij”, con sede a Firenze, lo stesso che ha prodotto anche il documentario.

 

L’archivio più importante sono però le tracce sonore dello stesso Tarkovskij, quelle delle interviste da lui concesse o delle conferenze, usate in grandissima parte come voce narrante fuori campo. Una scelta felicissima, che trasforma il film in una lunga soggettiva mentale, quasi che il regista stesso rivedesse la sua vita e facesse bilancio della sua esperienza artistica. Il tutto abilmente montato quasi fosse una composizione musicale, una colonna sonora di piani sovrapposti e mixati, da Michal Leszczylowski, il montatore di molti film di Bergman e anche di Sacrificio (t.o. Offret, 1986). Tra questi piani i momenti più lirici, e svincolati dalle necessità esplicative di questa (auto)biografia, sono l’intrecciarsi, nel tessuto sonoro del film, delle poesie del nonno Arsenij, forse registrate da Tarkovskij per Lo Specchio (t.o. Zerkalo, 1975) dove già si sovrapponevano senza tempo e luogo alle immagini. Uno spazio mentale, quelle delle poesie del padre (nonno), che in modo episodico è tornato sempre nei film successivi. Nel documentario s’inizia invece proprio da lui, da questo legame di Tarkovskij con un padre a cui tutto sembra ritornare, ma di cui sentiamo appena il nome e abbiamo poche tracce della fisiognomica, sempre confusa con quella del protagonista. Una struttura trinitaria che s’incarna quindi solo in lui, nel Figlio, e in cui l’autore del documentario si fa invece Spirito. Il Padre Arsenij assente per lontananza, il Figlio Andrej di cui si racconta la venuta e il farsi Opera, e lo Spirito Andrej Andreevič che ne ripete il patronimico anche nel nome, che si fa portatore, che si mette non solo al servizio, ma mette in luce l’atto generativo.

 

 

Preghiera, speranza, annunciazione, eppure anche nostalgia, senso della perdita. La perdita. Sembra quasi che questa sia l’atto generativo in se. Come il giovane costruttore di campane disperato perché il padre si è portato con sé nella tomba il segreto della loro Arte, del loro mestiere. Il suo atto di fede, nel rinnovarne l’impresa con successo, indurrà l’Andrej Rublëv di Tarkovskij a rompere il suo “silenzio” e prodursi nelle sue più alte opere d’arte. O il silenzio del bambino di Sacrificio, che torna alla parola e con essa a chiedere a un padre ormai assente perché all’inizio fu il Verbo, solo dopo che questi è venuto meno, bruciando casa e facendosi folle. Tale la necessità di questa assenza, tale quella della presenza della madre. «Capii che non sarei mai andato a vivere con mio padre sebbene lo avessi sempre sognato e soffrivo di non vivere con lui, ma mai in vita mia avrei voluto vivere con lui». Sono le parole di Tarkovskij sovrapposte alla scena autobiografica de Lo Specchio, il film con cui subito ci si confronta nel documentario. Il padre poeta è un’assenza generatrice per Andrej regista. In Nostalghia (1983) un suo libro di poesie è in scena, sbattuto furiosamente all’aria e infine bruciato. Non per rifiutarlo, ma per sottolineare l’impossibilità di tradurre la poesia, qualsiasi poesia. Nel ‘900 sarà Wittgenstein nelle sue “Ricerche filosofiche” (1953) a denotare con chiarezza cosa distingue una poesia da altro, ossia il fatto che qualsiasi proposizione può essere «sostituita da un’altra che dice la stessa cosa» mentre nella poesia v’è qualcosa che si esprime solo in quella determinata consonanza di suoni e disposizioni di pause e di parole. Per Tarkovskij l’arte è tale solo quando è poesia, quando è impossibile restituirne il senso in altra forma, discorsiva o simbolica, quando è impossibile tradurla. E seppure «il cinema è chiamato a registrare e esprimere il tempo», ponendosi rispetto alla vita e alla sua percezione in un modo che non si ritrova in nessun’altra arte, questa dimensione “poetica” è di tutti i grandi artisti: «Ogni arte è poetica nei suoi migliori e più alti esempi. Leonardo è il poeta della pittura, è ridicolo definirlo pittore com’è ridicolo definire Bach un compositore, è ridicolo definire Shakespeare drammaturgo, è ridicolo definire Tolstoj romanziere, perché sono tutti poeti».

 

Il documentario ci racconta come la lavorazione de Lo specchio, dopo ben diciotto tentativi di montaggio fallimentari, abbia visto l’edizione definitiva soltanto quando, tradendo del tutto la sceneggiatura, si è liberata di ogni forma letteraria. «Il cinema – ci dice Tarkovskij – nella sua essenza, nella sua prerogativa, nella sua composizione figurativa, appartiene al genere poetico, perché è in grado di fare a meno della letterarietà di una sequenza comune, perfino di quello che definiamo drammaturgia». È la stessa tesi che troviamo sviluppata analiticamente in “Scolpire il tempo” (Firenze, 2015) interamente rivisto e riedito in Italia dopo 28 anni a cura sempre del figlio e dell’Istituto con sede a Firenze. Due opere, il libro e il documentario, che si completano l’un l’altra, insieme alle stesse annotazioni raccolte nell’altra pubblicazione dell’Istituto, “Martirologio. Diario 1970-1986” (Firenze, 2014). Un titolo, quest’ultimo, meno oscuro se letto alla luce del documentario, in cui Tarkovskij parlando di cinema vuole solo parlare della dimensione estetica, da lui vissuta unicamente come condizione spirituale. I grandi artisti esprimono ciò che è inesprimibile, sono dunque dei folli e dei servitori, come tutti i personaggi dei suoi film, dallo Stalker (Stalker, 1979) al pazzo che si dà fuoco di Nostalghia, al vecchio padre di Sacrificio. L’ultimo capitolo del documentario è intitolato “L’eterno ritorno”, con doppia citazione che rimanda sia a Nietzsche sia al postino del suo ultimo film, Sacrificio, il quale lo cita a sua volta. Scrutando i tetti di una Firenze di segno rinascimentale ci racconta gli ultimi giorni di Tarkovskij, nella città che l’ospitò prima di essere trasferito a Parigi in ospedale. Vicino alla morte, ci confessa d’essere rimasto in compagnia solo di pochi pazzi, folli di Dio, gli unici di cui ancora si ricorda: Bresson, Tolstoj, Bach e Leonardo. Loro «non hanno cercato niente nella loro testa, erano posseduti e grazie a Dio nessuno è riuscito a scrivere su di loro qualcosa di sensato, il miracolo non è decifrabile, il miracolo è Dio». L’arte dunque è tale solo quando è poesia, ossia quando è indecifrabile, intraducibile, eppur legata alla materia, alla vita, perché è manipolando questa che fa percepire ciò che la trascende. A patto di intenderci su questa trascendenza. Ripartiremo da questo, nella seconda parte dell’articolo che si intitola L’anima russa di Tarkovskij. Il film come Icona, come scultura del Tempo in Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera.