La vita è fatta di incontri: Black Tea di Abderrahmane Sissako

I personaggi di Abderrahmane Sissako sono sempre stati viaggiatori, quasi a voler dire fin da subito che la dimensione stanziale non si addice al (suo) cinema. Dieci anni dopo Timbuktu ci racconta, infatti, degli incontri di una donna che ha deciso di lasciare la Costa d’Avorio per la Cina. Black Tea inizia con un matrimonio negato e una fuga. Senza soluzione di continuità, Aya, lasciato dietro di sé il quasi marito traditore, approda in Cina, a Guangzhou, in un quartiere chiamato Chocolate City, per la presenza massiccia di africani di tanti paesi diversi. Parla cinese e lavora nella bottega di tè gestita da Cai, che gli insegna con passione, l’arte di assaporare il tè e la sua storia infinita. L’atmosfera è rarefatta, i piani si distendono ai nostri occhi con necessità di tempo e di riflessione, le immagini si moltiplicano nel quadro grazie a continue sovrapposizioni e riflessi, al gioco delle trasparenze attraverso i vetri e le luci. Non è l’Africa dei colori pieni e delle immagini assolute. Qui le linee sono orizzontali, l’attesa e i gesti ovattati, lenti e precisi, rappresentano la meditazione nella sua forma concreta. E qui Aya ha una nuova vita piena di studio e consapevolezza, la stessa che esprimeva nella camminata con cui si allontanava dalla sua vecchia esistenza e si avvicinava alla nuova.

 

 

La dissolvenza che sovrappone le due strade è un istante di senso profondo, come a dire che non si cambia viaggiando, ma nel momento stesso in cui si intraprende il cammino. E così anche lo sguardo del mauritano Sissako cambia pelle senza cambiare sguardo e si concentra sugli incontri prima che sulle storie. Il quartiere brulica di quei quotidiani eventi che riempiono questo film, dal negozio di tè a quello di valige di fronte, dal beauty center al parrucchiere che tutti frequentano, al ristorante in cui Aya e Cai si ritrovano al di fuori del lavoro. Una routine che contempla anche intromissioni esterne, corto circuiti e detour del pensiero o del desiderio. Come quando Aya chiede a Cai quale sia il suo più grande desiderio e lui rinvierà la risposta di molto, per consentire, nel frattempo, al racconto, di aggiungere dettagli su quest’uomo taciturno e misterioso. O quando il figlio di Cai osserva inorridito le manifestazioni razziste che, si dice, stanno per trasformare questa zona di accoglienza e convivenza, in un guazzabuglio di rivendicazioni razziste.

 

 

L’Africa vi appare come un luogo evocato e distante, in cui tornare con la mente e con la speranza, la nota malinconica che sottende tutto il film, la nostalgia che innesta il melodramma grazie ai canti, alle danze di quel continente che parla infinite lingue (dal francese al bambara, dal portoghese all’inglese al wolof, al cinese, appunto), in una coreografia culturale in continuo divenire. Tornano in mente i primi film di Sissako, Le jeu, Octobre, Rostov-Luanda, girati in Unione Sovietica e ispirati alla sua stessa esperienza di straniero e di viaggiatore in terre straniere. Torna alla mente Aspettando la felicità, la scena premonitrice in cui un immigrato cinese canta in un bar con una donna africana. Il disorientamento è sempre il punto di partenza per questo regista cosmopolita, che sa declinare le difficoltà in prospettive e occasioni.