Toni da commedia per raccontare una storia alla cui base c’è un dramma familiare: un territorio nel quale Paolo Virzì si trova da sempre a proprio agio. E pure quello in cui Valerio Mastandrea – con la sua maschera capace di accumulare nel tempo rughe amare senza perdere in amabilità – offre il meglio di sé. Anche se poi in Cinque secondi il regista livornese frena parecchio la propensione al sarcasmo, lasciando che l’attore romano (protagonista assoluto e motore del film) dia vita a siparietti comunque divertenti, ma originati più dalla diversità dei personaggi in scena e meno dalle situazioni che abitano. Adriano vive in solitudine in un casale toscano, che gli hanno affittato promettendogli condizioni impareggiabili per un tranquillo romitaggio. Tra piccoli lavori di manutenzione e un postino che consegna raccomandate, la pace non è in verità completa, ma l’uomo riesce a coltivare l’attitudine misantropa, accentuate dalla rinuncia alle pulizie di casa come pure all’igiene personale. Scrive messaggi al figlio, che vive con la madre e li ignora, fa ricerche su temi vari, sta in campagna senza incombenze quotidiane, considerato che anche la necessità di nutrirsi è espletata ricorrendo a scatolette di cibo pronto.

Sopporta giusto le visite di Giuliana (Valeria Bruni Tedeschi, solito irresistibile mix di stralunata spavalderia e fragilità), sua socia in uno studio legale della capitale, che cerca di convincerlo a presentarsi in tribunale, dov’è atteso per un processo penale in cui siederà al banco degli imputati, per rendere conto di un episodio che ha sconvolto la sua famiglia. E che scopriamo un poco alla volta, attraverso frammenti di flashback che ricompongono un quadro il quale – al di là dell’evento letteralmente incriminato – ci dice qualcosa (il necessario, nulla di più) della traiettoria esistenziale di Adriano. Tutto ciò mentre una scossa profonda gli deriva dal contatto forzato, e in principio per lui decisamente fastidioso, con un gruppo di giovani ambientalisti guidati dalla carismatica quanto volubile Matilde (interpretata con piglio esuberante da Galatéa Bellugi), che hanno occupato l’antica villa di cui il casale è una dépendance, fondandovi una comune con ambizioni vitivinicole.

Sceneggiata da Virzì medesimo con il fratello Carlo (anche autore di una colonna sonora emozionale, quasi sussurrata) e Francesco Bruni, Cinque secondi è un’opera sopra la media del cinema italiano, che semina suggestioni sulla paternità da una prospettiva abbastanza singolare. Vi affiorano echi autobiografici del regista, a sua volta padre separato con figli adolescenti, che evidentemente si rispecchia negli interrogativi interiori attraverso cui Adriano prova a mettere a fuoco la propria imprevista inadeguatezza. Chiedendosi, costui, se ha sbagliato per troppo amore o (anche) per egoismo, quindi facendo prevalere le proprie esigenze e le proprie idee (brillanti, anticonformiste, ma soltanto sue) rispetto alle responsabilità del ruolo paterno, che nella sua forma ideale non richiede protagonismo quanto invece disponibilità ad ascoltare e ad accettare anche ciò che non si capisce. Qualità che non mettono comunque al riparo da impasse di “cinque secondi” o di qualunque altro tipo, perché la materia è fluida quanto poche altre, impossibile da racchiudere in casistiche. Perfettamente consapevole di ciò, Virzì mette in scena un’agrodolce parabola umana con delicatezza assai maggiore rispetto alle ultime uscite (la distopia quasi feroce di Siccità, la greve reunion isolana di Un altro ferragosto). Senza giudizi né pregiudizi e misurata pure nella (inevitabile) commozione, assecondandone il mistero finanche nelle sue utopie bucoliche, che contribuiscono in maniera determinante ad alleggerire la pressione da atmosfera catartica.


