Le Illusioni perdute di un poeta

Guai ai giovani ambiziosi e innocenti, perché nella giostra dei salotti altolocati e delle notizie in vendita, sono destinati a vedere le proprie illusioni calpestate. Il regista francese (ma di origine corsa) Xavier Giannoli parte dall’omonimo romanzo di Honoré de Balzac per il suo film Illusioni perdute, storia intricata e politica, ambientata nella Prigi del 1820, in piena Restaurazione, eppure attraversata da un fermento culturale e militante spudorato e inarrestabile. Il giovane provinciale Lucien de Rubempré (che ha preso il nome nobiliare della madre, rinnegando le umili origini del padre farmacista) lascia Angoulême per Parigi, al seguito dell’amante madame de Bargeton, che ha promesso di aiutarlo a diventare un poeta famoso ma lo ha già coinvolto in uno scandalo. Impossibile sarà per lui sfuggire al peccato originale e tentare altre strade. L’aristocrazia non perdona. Indispettita dal liberismo che avanza, messa alla berlina dai nuovi giornali satirici (che fanno la ricchezza di un’emergente classe sociale), si muove tra ricatti e manipolazioni, coltivando rancori e cercando vendette spesso inutili. Dall’altro lato della barricata un nascente “capitalismo”, già legato a doppio nodo all’informazione, che, allora come oggi, non si dà regole da rispettare e si vende al soldo del miglior offerente, sia che si tratti di verità che di menzogne. In mezzo si muove il giovane ingenuo Lucien, abile con le parole e sufficientemente umiliato da diventare la penna più velenosa della città. Scrive articoli satirici, recensioni commissionate, commenti al vetriolo necessari a manipolare il mercato culturale e far scoppiare scandali di cui nessuno si ricorderà due giorni dopo, egli stesso sempre più immemore del suo talento e del proposito letterario che lo aveva spinto fin lì.

 

 

Giannoli mette in scena un film in continuo e veloce movimento, dove gli scenari sono pronti a cambiare e gli applausi a diventare fischi. Proprio come Lucien, più volte in ascesa e più volte costretto in miseria, colpevole di aver assecondato le trame di tutti gli altri, tradendo se stesso e dimenticando le sue stesse illusioni. Lo sguardo è incalzante e coinvolgente, raffinata la ricostruzione dei luoghi e dei costumi, quasi maniacale la cura prestata da Giannoli ai dettagli della recitazione e della prossemica (necessaria in un film che è teatro nel teatro), mentre i sentimenti, viscerali e assoluti, trovano rappresentazione in un turbinio di dialoghi che si rincorrono con destrezza. Tutto è perfettamente studiato e capace di creare un ritmo denso di sorprese e di repentini cambiamenti. Il montaggio ha la sapienza di strappi perpetrati lungo una linea di dissimulazione. La leggerezza “pop” gioca da contrasto con la crudeltà di un mondo fatto di stratificazioni e incrostazioni velenose. La cupezza affiora dalle fessure e satura l’aria e il colore. Solo alla fine si ristabilisce il silenzio e il rimpianto diviene l’unico sentimento di una chiusura amara, che ha la forza dirompente di enunciare tutta l’amarezza fino ad ora camuffata.