Un uomo entra al Quai D’Orsay. È in cerca di un misterioso personaggio, Ivan Dedalus, che sembra essersi volatilizzato in una missione segreta. I diplomatici si ritrovano al bar:raccontano, ipotizzano, immaginano, inventano. La macchina da presa volteggia, la musica hitchockiana riempie la scena, il montaggio assume i tempi di un valzer. In realtà quello che vediamo è il film che IsmaëlVuillard (Mathieu Amalric) sta girando: una specie di spy-story, esotica come un vecchio James Bond, fantasticata sull’immagine di un fratello lontano. Ismaël ha perso la moglie Carlotta (Marion Cotillard), sposata giovanissima e scappata da più di vent’anni, fuma beve e non dorme, si trova a dover ancora consolare il suocero-mentore, celebre filmmaker piegato dalla fuga/morte della figlia, incontra una nuova compagna, Sylvia (Charlotte Gainsbourg), un’astrofisica con la testa in cielo e il cuore disponibile all’amore. Arnaud Desplechin, nella prima parte di Les fantômes d’Ismaël, alterna registri e semina indizi con ritmo vorticoso. Il protagonista è un uomo ferito, sospeso tra un destino che non smette di riaffiorare e un presente che gli intima di guardare avanti, riprendendo le fila del racconto (della propria vita e del proprio film).
L’improvvisa ricomparsa di Carlotta, come se nulla fosse successo, su una spiaggia – confine tra terra e mare, tra finito e infinito – trasforma il film in una storia di fantasmi, un racconto gotico sulla reificazione del passato: lo sparire come fatto naturale e ineluttabile, il ricordo come dannazione che si fa carne, l’amore come gesto di continua reinvenzione creativa, il terrore dei legacci – in una scena anche fisici – a cui la memoria costringe. Il ritorno della donna crea un cortocircuito: lei è un corpo d’amore – e un senso di necrofilia traspare dallo sguardo di Ismaël, come in quello di James Stewart in La donna che visse due volte al (ri)apparire di Kim Novak – che ostacola il fluire delle cose invertendo il campo magnetico, nebulizzando l’oggi e rendendo l’ieri tangibile e minaccioso. Un passato che traspare in controluce dalla fantasia filmata dal regista: il suo film trascolora ricordi e nostalgie, si fa anch’esso presente impedendo di fatto, ineluttabilmente, il proseguimento delle riprese. Ismaël è ossessionato dalla memoria – ormai declinata in incubi ricorrenti – e dal cortocircuito prospettico (quello che vede, quello che ricorda, quello che sembra essere successo e quello che è successo davvero). Inverte astrattismo e realtà (la pittura di Pollock e i maestri fiamminghi), entra ed esce dalla storia del film fino a farsi unico narratore, ma a voce, non riuscendo a reggere il peso del set. Desplechin mette in scena, in un crescendo purtroppo ricco di inciampi, i suoi temi ricorrenti – il rapporto uomo-donna, il peso gigantesco del passato, l’affabulazione del racconto ramificato – sottolineando i riferimenti a partire dall’onomastica: Ismaël, come in Moby Dick; Dedalus, come in Joyce e come nei suoi Comment je me suisdisputé… (ma vie sexuelle), Un conte de Noël e Troissouvenirs de ma jeunesse; Carlotta, come l’antenata – ancora – di La donna che visse due volte, che torna anche nel ritratto della protagonista e nel tema accennato al pianoforte; Bloom, di nuovo come in Joyce. La vita, davvero, sembra essere un romanzo: il difficile però è mantenere una compattezza tematica nella volontaria e consapevole esplosione delle linee narrative. E nella seconda parte, tra l’apparire e lo scomparire dei vari personaggi, che entrano ed escono di scena come in un flusso di memoria, tra una canzone di Dylan (ItAin’t Me, Babe: ancora a ribadire un’inafferrabilità quasi esistenziale) e una rêverie sentimentale, tra uno sguardo nel passato e un piede nel futuro, Les fantômes d’Ismaël si perde e ci perde in un labirinto di suggestioni libere (come il loro autore) ma a tratti confuse, coraggiose ma vagamente sfocate.