Scritta sul corpo dell’infanzia, la distopia assume sempre una connotazione ambigua, sospesa tra l’angoscia d’abbandono e l’ansia di un nuovo inizio. L’immagine di Moon, la ragazzina protagonista di Mare’s Nest, in Concorso a Locarno78, sta perfettamente in questo arco narrativo, ma senza ambiguità: siamo del resto nel nuovo film di Ben Rivers e questo è un autore che non conosce doppie misure, aderisce sempre perfettamente al concetto che è alla base delle sue opere. È così, anche in questo suo nuovo lavoro, per il quale ha tratto ispirazione dal testo teatrale di Don De Lillo The Word for Snow, un atto unico dalle valenze ambientalistiche, in cui un pellegrino fa visita a uno studioso che decreta la fine delle parole e quindi la fine del mondo. Configurazione distopica della realtà che Ben Rivers traduce in un mondo senza più civiltà, popolato solo da bambini e attraversato da Moon, una ragazzina che cerca una spiegazione per la fine di quel processo evolutivo dell’umanità che, nella scena iniziale del film, ha raccontato con darwiniana precisione a una tartaruga che ha rischiato di investire con la sua auto.

Il testo di De Lillo è messo in campo dal regista nel secondo episodio del film, che prelude allo sviluppo successivo in cui Moon farà altri incontri e attraverserà luoghi e comunità in cui l’infanzia disincarna il tempo dell’inizio tanto quanto quello della fine, rimanendo lo scenario archetipale di un mondo sospeso tra disperazione e speranza. L’astrazione di una messa in scena performativa, distante dalla verosimiglianza e aderente al gioco della parabola, si impone come la chiave di volta di un’opera che quadra con precisione l’assunto metaforico che si prefigge. Ben Rivers, del resto, è autore che ha sempre avuto nelle sue immagini una chiave d’accesso archetipale alla realtà e Mare’s Nest resta in linea con questa tensione, incarnandola in un mondo affidato all’infanzia che dialoga perfettamente con le sue frequenti incursioni visionarie in zone d’ombra del tempo e della civiltà: distopie che, in opere come Ijen, London, Slow Motion, The Creation As We Saw It o il recente Bogancloch, vengono trovare tra found footage e figure distanti dalla civiltà comunemente intesa. Definendo un nuovo tempo della narrazione, inteso come tempo rinnovato della e per la civiltà alla quale in un modo o nell’altro apparteniamo, culturalmente e biologicamente.



