Locarno74 – Dal pianeta degli umani di Giovanni Cioni e la memoria viva

Il pre-testo è quello, di estrema e tragica attualità, delle migrazioni, delle persone stremate che si mettono in viaggio da terre devastate verso l’agognata Europa, nello specifico quel che accade loro nel posto di frontiera tra l’Italia e la Francia, Ventimiglia, le strade e i treni militarizzati come se si fosse in un tempo e in un luogo di guerra, i sentieri tra le montagne per tentare di eludere i controlli e passare oltre. Quasi sempre respinti, pur se qualcuno ce la fa. Ma come questa attualità la racconta Giovanni Cioni in Dal pianeta degli umani (presentato fuori concorso al festival di Locarno) è tutt’altra cosa. Non c’è cronaca, non ci sono interviste, il tutto si riduce a lampi di corpi intra-visti, a brandelli di frasi, a attese nella stazione e nei dintorni. Fin da subito, il cineasta toscano, dal percorso filmico autonomo piuttosto che indipendente, lontano da regole narrative imposte (come fa anche un’altra autrice italiana che, al pari di Cioni, ha trascorso, e lei ancora ci vive, parte delle sue esperienze in Belgio, ovvero Loredana Bianconi, che ha in filmografia due capolavori del calibro di Oltremare e l’ancora inedito Des portes et des désert che condivide con Dal pianeta degli umani l’approccio poetico e visionario partendo dallo stesso soggetto della questione migratoria) e difficilmente classificabile all’interno del cinema italiano e non solo cosiddetto documentario, bensì in sintonia con la mai dimenticata e imprescindibile Immagi-Nazione teorizzata da Stan Brakhage, compone una mappa di immagini, suoni e parole dove le età e gli spazi si confondono, ribaltano, sostituiscono, sovrappongono.

 

 

Il cartello iniziale, che rimanda a quelli del cinema muto, e il riferimento alla fiaba, al “c’era una volta”, a “quei tempi” e ai “nostri tempi”, sprofonda lo spettatore in un vortice sperimentale e emozionale, esperienziale, e lo libera da imposizioni, schemi, percorsi pre-ordinati. Anche se la struttura che regge Dal pianeta degli umani è pensata in ogni passaggio, fotogramma, tono di voce (quella del regista che fa da narratore soggettivo pur leggendo/recitando/modulando un testo-poema in terza persona), vibrazioni sensoriali cui contribuiscono inoltre le potenti musiche originali fonti di distorsioni al tempo stesso sonore e ‘visive’. Si parte, dunque, dall’oggi, e si va indietro nel tempo, agli albori del Novecento, e del cinema, per poi avanzare nel secolo scorso e soffermarsi su periodi, episodi, fatti epocali, sempre tenendo presente il luogo d’avvio al quale tornare regolarmente: Ventimiglia, il confine, una villa sul mare che, come i sentieri ora chiamati “della morte”, furono testimoni di tanti accadimenti, alcuni incredibili, si pensi alla storia, che prende ampio spazio, infine fin troppo, dello scienziato russo ebreo Voronoff e dei suoi esperimenti da “dottor Moreau” su cavie di scimmie per trapianti su esseri umani (e, suggerisce Cioni di fronte a questo personaggio poi caduto nell’oblio, magari mai esistito, solo una fiaba tramandata…). Storia plurale di persone/spettri che il cinema ‘conserva’: compresi gli anonimi vacanzieri negli anni d’oro delle vacanze in Riviera da una parte e gli anonimi africani colonizzati e schiavizzati, come le scimmie di Voronoff, dagli invasori fascisti italiani dall’altra. Persone/spettri come lo sono i migranti oggi, costretti all’invisibilità, mentre restano tangibili, nei loro luoghi di transito e sosta nei boschi e nei ruderi usati come riparo, e ‘a memoria’, gli oggetti da loro utilizzati e abbandonati – “mausolei”, li chiama Cioni.

 

 

La sua narrazione per frasi brevi, ripetute, da cantilena sospesa, si riflette nelle didascalie che interagiscono con/sulle immagini e diventano ulteriori frasi che ri-prendono quelle pronunciate, le integrano, portano altrove, aggiungendo nuovi sensi. Voronoff aveva l’ossessione per l’immortalità, la perseguiva nelle sue folli derive ‘scientifiche’. Ed essa è una linea tesa che attraversa il film. E che trova la propria espressione appunto nel territorio del cinema. Dal pianeta degli umani è memoria viva, immersione negli archivi e nelle immagini realizzate oggi che già sono diventate memoria, ancor più per lo sguardo tattile, malfermo (panoramiche e soggettive e zoom ansimanti), contaminato scelto da Cioni per esplorare e mettere in dialogo una moltitudine di tempi e spazi. Fragilità da custodire. E dove emerge anche una pertinente selezione di film che si affacciano dagli strati delle inquadrature, e del montaggio, per partecipare a questo infinito “sopralluogo”, così lo definisce l’autore, messa in gioco di altre fonti attorno al discorso su potere, sopraffazione, ribellione, sacrificio: Cabiria di Pastrone, Femmine folli di Stroheim, il King Kong di Schoedsack e Cooper, Captive Wild Woman di Dmytryk, Island of Lost Souls di Erle C. Kenton, The White Gorilla di Harry L. Fraser. Un film, Dal pianeta degli umani, che è -infine, inizialmente, durante – una sovrimpressione espansa di tanti altrove, compreso il qui recente che/da cui si/ genera ‘tutto’.