Sarebbe troppo facile liquidare Reinas – presentato al Sundance, miglior film della sezione Generation alla Berlinale dello scorso anno, Premio del Pubblico al Festival di Locarno, terzo lungometraggio di Klaudia Reynicke, regista di origini peruviane cresciuta tra Europa (Svizzera soprattutto) e Stati Uniti – come un piccolo film autobiografico. Reinas è un film che racconta la storia di una famiglia, ambientato in un contesto in cui la regista è cresciuta, con un chiaro sottofondo politico e sociale che respira come se fosse un personaggio centrale della vicenda. È dentro la messa in scena delle dinamiche famigliari, specchio di un contesto destinato a frantumarsi e implodere, che il protagonista Carlos si scopre ingabbiato, anche lui incapace di lasciare andare il ricordo, il sentimento, la propria identità. D’altra parte siamo nel Perù degli anni novanta. Per combattere l’inflazione Fujimori adottò drastiche misure di austerità: la valuta fu svalutata del 200%, centinaia di aziende pubbliche furono privatizzate e trecentomila persone persero il lavoro. Un tempo in cui la vita delle persone fu segnata indelebilmente da povertà, repressione politica, autoritarismo. Reinas quindi è un film che sceglie di rappresentare le alternative alla morte della disperazione seguendo la falsa riga tracciata dal precedente titolo della regista (Love me tender).
Svincolandosi da un’idea statica di morte, entrambi i film si muovono tra le pieghe misteriose della vita esplorandone la complessità, tenendosi distanti da derive filosofiche spicce o dal fornire risposte accomodanti. Entrambi, soprattutto Reinas quando innesca un legame con la rappresentazione storica della realtà, pongono lo spettatore di fronte a domande urgenti sulla condizione dell’uomo. Il film s’interroga sul rinascere, sul perdersi per ritrovarsi, ma lo fa stringendo il campo visivo sulla famiglia di Carlos creando un disturbante effetto soffocante dall’inevitabile riflesso affettuoso: uomo in cerca di equilibrio ma in perenne disordine, determinato a farla finita e pronto a firmare le carte del divorzio ma consapevole di essere attaccato alla vita e capace di mettere in gioco la propria solitudine. Carlos è un personaggio interessante per come rialza lo sguardo, tenta di uscire dagli schemi e frantumare la sua condizione di padre supplente e mancante. E quando conquista finalmente il proprio spazio, la propria autentica identità, con tutte le sue contraddizioni, è capace di congedarsi con una frase che esprime al meglio il suo sguardo: «Con i piedi a terra e gli occhi al cielo niente è impossibile». Per lui, la sua famiglia, il Perù. Se da una parte, quindi, Reinas per la regista costituisce il tentativo di riconnettersi al proprio paese originario abbandonato all’età di dieci anni per raggiungere l’Europa e poi gli Stati Uniti, dall’altra offre una insolita prospettiva su di una famiglia che forzatamente si ricongiunge prima di una partenza decisiva per il corso della propria storia.
Non un film a tema, bensì un film sul vuoto che si crea a causa della paura del cambiamento, quando si pensa con nostalgia al passato e non si riesce a vedere con chiarezza il futuro. E poi, un film colmo di domande: cosa significa lasciare la propria terra d’origine? Quali sono le aspettative di chi desidera una vita, se non migliore, almeno diversa? Quanto pesa il ricordo di ciò che lasciamo? Ecco che Reinas ben presto si trasforma in un film che sceglie di rappresentare le ambiguità dei rapporti personali come riflesso di una condizione sociale e politica in trasformazione e le tante maschere indossate (e poi abbandonate) da Carlos sono la piena realizzazione di questo disegno. Ma si potrebbe anche guardare il film di Klaudia Reynicke come un apologo della condizione del migrante: di fronte alle sfide del viaggio della vita, spostandosi, l’essere umano è disposto a lasciare qualcosa e qualcuno in virtù di altro e di ignoto. Con la sua insolita andatura Reinas mette in gioco altre suggestioni che vale la pena riconoscere e fissare come parti portanti di un discorso più complesso: è ricca e fitta la trama di questi vissuti tesi a condividere un momento di passaggio, una condizione di precarietà emotiva, un vuoto esistenziale difficile da comprendere per chi non ha attraversato smarrimento e perdita.
Mentre la moglie Elena guarda al Minnesota, la tanto sognata terra promessa, Carlos prova a ricucire il rapporto con le proprie figlie nonostante anni di assenze e bugie. Reinas è anche un film di promesse e desideri, assenze e apparizioni che generano una sottile ambiguità, un effetto straniante anche per lo spettatore, alle prese con una ricerca di sguardo personale che lo conduce di fronte a diffuse zone d’ombra. Lo spettro e le conseguenze delle aspre misure politiche amplifica il senso di giustizia atteso dai protagonisti che per un attimo credono di non essere costretti ad abbandonare la propria casa ma poi si rendono conto che amare significa anche abdicare e mettersi da parte.