Liberamente ispirato dal dittico di romanzi di Francesco Piccolo (qui nel ruolo anche di cosceneggiatore), Momenti di trascurabile felicità (2010) e Momenti di trascurabile infelicità (2016), l’ultimo film di Daniele Luchetti è un progetto potenzialmente curioso e stimolante che tuttavia riesce a stento a chiudere anche solamente una delle molteplici sfide che cova al suo interno. Ad esempio, è apprezzabile la scelta di dare nuova vita cinematografica a Thony, attrice da sempre poco sfruttata ma in grado di catturare su di sé l’attenzione delle scene in cui è presente. Peccato però che anche in questo caso la sua presenza sia decisamente troppo marginale. Poteva essere una trovata coraggiosa quella di scardinare Pif dal suo personaggio televisivo e immergerlo in un terreno per lui meno battuto. Invece il film inizia come fosse una puntata de Il testimone, con l’attore che racconta la storia in voice over e un’ambientazione palermitana mirata a metterlo a suo agio. O ancora, risulta davvero riuscita la sequenza dell’errore burocratico nell’anticamera dell’aldilà (la migliore dell’intero film), con un Renato Carpentieri più che convincente nei panni surreali dell’impiegato metafisico ma poi costretto a cedere al richiamo di uno stile meno grottesco e più lineare di quanto non ci fosse bisogno.
Così come poteva diventare davvero stimolante la sincronia tra il tempo della narrazione filmica (poco più di 90 minuti) e l’ora e 32 minuti concessi al protagonista Paolo per tornare sulla terra a sistemare le questioni più importanti della sua esistenza prima della definitiva dipartita. Invece Luchetti si arrocca dietro uno scheletro talmente consolidato da risultare esile. Non rischia nulla, non perde mai il controllo sul racconto, procede con il pilota automatico anche quando le emozioni e i personaggi avrebbero richiesto maggiore libertà. Il grande assente di questa commedia, purtroppo per tutti (noi spettatori e loro autori), è il cinema. Non basta frammentare la linea cronologica, creare dei giochi di riflessi temporali mirati a restituire un labirintico flusso di coscienza per tramutare in immagini le deliziose paturnie raccontate nero su bianco dai testi di Piccolo. Il cinema di Daniele Luchetti sembra essersi fermato alla messa in scena. Stessa sindrome di cui soffriva il precedente Io sono Tempesta (2017). Non c’è più traccia del tratto vibrante e spensierato dei primi lavori, o quello più politico e sporco della sua maturità. Tutto ora è talmente vacuo e superficiale da risultare impalpabile. Per firmare una commedia leggera, non necessariamente si deve adottare uno sguardo leggiadro.