La guerra come un gioco da tavolo fatto di mappe, strategie, percorsi, bandierine, colorati carri armati in miniatura, munizioni, frontiere. Ma anche come uno sport, in cui i corpi di giovani soldati israeliani vengono catturati in momenti di giocoso cameratismo a tavola, negli spogliatoi, durante gli addestramenti al sole cocente del deserto o nella profondità della notte. Paradiso XXXI, 108 è una sorta di anti-archivio, in cui i repertori propagandistici degli anni Sessanta e Settanta dell’esercito israeliano vengono stravolti e riconfigurati in una breve parabola di 18 minuti, che ne spazza via i toni trionfalistici e le intenzioni autocelebrative. Il cortometraggio sarà presentato in prima italiana stasera alla Cineteca Arlecchino di Milano per il FilmMakerFest.
Il regista, il palestinese Kamal Aljafari – che sarà presente in sala – l’ha definito “il ritratto cinematografico di un uomo che gioca alla guerra”, in cui l’uomo allude all’umanità tutta, che in nessuna epoca riesce a scrollarsi di dosso una fascinazione malata per la guerra. Palestinese emigrato in Germania, dove vive alternando l’attività di regista all’insegnamento, Aljafari conosce da vicino le tensioni di una delle zone più instabili del pianeta, come confermano le recenti esplosioni alle porte di Gerusalemme. Il regista evita tuttavia posizioni semplicistiche, una banale retorica antibellica o il pietismo spicciolo per l’una o per l’altra delle fazioni coinvolte nel conflitto. La stessa critica all’imperialismo israeliano e ai suoi imponenti arsenali non viene esasperata: c’è piuttosto il tentativo di radiografare la guerra in modo astratto, come una pratica (dis)umana al di là di confini specifici.
Aljafari procede attraverso un’attenta decostruzione dei repertori di propaganda, riproponendoli in un nuovo archivio audiovisivo: le immagini vengono completamente destabilizzate anche da un punto di vista semantico ed etico. L’enfasi sulle riprese dall’alto, in cui carri armati e strutture di guerra appaiono come minuscole pedine tra le dune del deserto è uno degli espedienti più distintivi del corto per riportare la guerra alla sua dimensione di microscopica banalità, di ristrettezza degli orizzonti morali. Di morte e distruzione vere e proprie non c’è traccia, trattandosi di esercitazioni militari: un aspetto che da un lato scongiura la ricerca melodrammatica, immediata e spesso opportunistica dei grandi effetti di tante immagini di guerra. Dall’altro amplifica un senso di straniamento: c’è qualcosa di ironico, a tratti ridicolo, in queste operazioni tra carri armati che si lanciano goffamente all’inseguimento di nemici immaginari e uomini che si rannicchiano a terra per scansare i colpi di cecchini invisibili. Sembrano momenti di svago per bambini, a cui bastano una spada di legno e uno scudo di cartone per calarsi in universi di castelli assediati e draghi decapitati. Le inquadrature di conchiglie disseminate tra la sabbia o di file di carri armati in miniatura insistono sulla guerra come una pratica ludica, le cui regole vengono però codificate da pochi potenti con conseguenze fatali.
L’effetto alienante è esacerbato anche dallo scollegamento tra immagini e suoni: detonazioni, spari, voci, segnali d’allarme, musiche colte (la Danse macabre di Saint-Saëns, la Sarabande di Handel) insieme a canti natalizi intonati da voci bianche (Oh Holy Night) si intrecciano alle immagini senza coerenza, aggiungendo un tocco di ironia e malinconia a questo non-sense collettivo. Il titolo del corto è un riferimento colto alla commedia dantesca e al XXXI canto, nel momento in cui Dante contempla San Bernando che a sua volta ammira la Vergine. Qui Dante fa un paragone con quei pellegrini stranieri che, dopo un lungo viaggio, non riescono quasi a sentirsi appagati nella loro brama di cogliere il divino: devono accontentarsi di scorgere Dio nelle fattezze di Cristo, impresse tra le pieghe del Velo della Veronica a Roma. Anche le sequenze finali del corto invocano Dante, quando più avanti celebrerà il tripudio della luce divina che investe l’universo intero: aerei da caccia si librano in cielo tra coreografie spettacolari, fino ad annullarsi nel fulgore del sole. Non può esserci traccia di bellezza o poesia nell’assurdità della guerra, se non nel suo annullamento: non resta che una grande macchia lattiginosa sullo schermo, che fagocita significati, figure e suoni, lasciando margine solo per qualcosa che va oltre, che trascende: un’utopia senza guerre? Una dimensione più alta?
FilmMakerFest Cineteca Cinema Arlecchino 26 novembre 19h