Perfect Day. Il modo di vedere le cose

a-perfect-day-still-461x250Fernando León de Aranoa è abituato a esaminare le piccole cose, a entrare nella realtà delle miniature per trarne un affresco che sappia ampliarsi negli occhi dello spettatore. La solidità dei suoi film (sette lungometraggi tutti sceneggiati da lui) sta nella capacità di osservare da lontano, pur stando al centro delle situazioni che intende raccontare. Così, in Perfect Day si parte da un dettaglio qualunque, in un luogo qualunque in mezzo ai Balcani di una guerra ormai quasi finita, nel 1995. Una sorta di finestrella sgangherata che si affaccia al contrario su un mondo provvisorio e definitivo al tempo stesso. Saggio e stolto, semplice e irrisolvibile com’è stata quella guerra. Il regista spagnolo conosce quei luoghi perché li ha “praticati” da documentarista e sa trovare anche in una storia “inventata” (il film è ispirato al romanzo della cooperante spagnola Paula Farìas, Dejarse Llover) situazioni e sguardi veri, istanti di realismo flagrante, definiti dal contesto estremo, dal paesaggio disadorno (ricreato in Andalusia), da volti mescolati e situazioni confuse e inestricabili.

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Ventiquattro ore nella vita di quattro operatori umanitari, un interprete e un bambino, impegnati ad andare avanti con le proprie vite, nonostante i mille ostacoli. Si deve tirar fuori da un pozzo il cadavere di un uomo per restituire l’acqua alla popolazione di un villaggio, ma le cose vanno storte e ogni gesto si complica fino alla farsa. Non è solo la corda che si spezza (e che si è già spezzata e continua a spezzarsi dentro ognuno dei personaggi), è un intero sistema che è andato distrutto, disgregandosi lentamente, prima della guerra, e poi disintegrato nell’attimo necessario ad imbracciare un’arma. Il sottotesto è più che mai tragico e cupo in questo film, che, invece, fa sorridere qua e là, e invita al relativismo. La prima immagine esprime già molto di questo tacito pandemonio. Dall’interno del pozzo si lavora per riuscire a Perfect_Day_10bonificarlo. Dal basso verso l’alto. Dal buio alla luce. Quasi didascalico, se non fosse un segno tanto discreto da incorniciare il racconto come un suggerimento di lettura. C’è la necessità di trovare il modo di vedere le cose, e non soltanto per noi. Gli stessi personaggi combattono con la loro ironia questa battaglia e sono messi di fronte alle situazioni più diverse e più paradossali per un luogo di guerra, ogni volta spinti a regolare lo sguardo, trovare la giusta distanza, capovolgere quello che sembra semplice ma che non concede vie d’uscita. Perché qualcosa si nasconde sempre ai loro occhi (e ai nostri), le mine che stanno sepolte nel terreno, proprio come i pensieri degli uomini si inabissano tra i silenzi, e poi c’è sempre qualcosa da non vedere, da nascondere agli occhi di qualcun altro. Fino a quando, puntuale, uno strano scherzo del destino arriva a deviare i percorsi di questa giornata perfetta e incompleta, crudele, divertente e inconcludente, e ci sono le cose che cambiano di segno, come una corda: cercata per ridare la vita era stata invece usata per dare la morte. Come la pioggia, che arriva all’improvviso e sarà bene e male contemporaneamente.