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Race e della superficialità

Chi sperava in un ritMTM2NjI2ODQ5NTEyOTU3NTM1ratto a tutto tondo del grande campione dell’atletica Jesse Owens e del tempo complicato in cui è vissuto, si ritrova invece di fronte ad un compendio di stereotipi del biopic. In Race – Il colore della vittoria infatti, Stephen Hopkins riesce a banalizzare una storia complessa, stratificata e densa di implicazioni politiche ed emozioni sportive, riducendola ad un elenco di esibizioni politically correct che hanno a che fare più con una visione schematica della realtà che con l’idea antica e squisitamente hollywoodiana della costruzione del mito. Come dire che pur nel territorio dei luoghi comuni cui è abituato, Hopkins si adagia ancor di più su un tipo di rappresentazione riduttiva di fatti, personaggi, situazioni. Si procede per blocchi narrativi, cui sono abbinati altrettanti passaggi determinanti della vite del campione. La corsa, l’Università, l’ascesa, il crollo e infine la vittoria. Nulla che non sia nella ricetta perfetta di un film hollywoodiano di genere, anzi, fin troppo rispettoso di una presentazione classica del protagonista e degli ambienti: l’America razzista degli Anni Trenta, la segregazione e il dissenso lieve, la leggerezza degli ambienti neri, la loro musica, la loro vitalità, nonostante povertà e ostacoli di ogni tipo. Tutto appena accennato, semplicemente mostrato, senza scendere troppo in dettagli né arrivare mai al centro di una trattazione dei fatti che non sia descrittiva, a partire dal  ritratto avvilente di Leni Reifensthal.

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Non c’è dramma, non c’è mélodramma, neppure il tono epico per le scene allo stadio olimpico di Berlino durante la straordinaria avventura che portò Owens (che si chiamava in realtà J.C. e non Jesse, come invece, sbagliando, lo chiamò la prima insegnante) a vincere ben quattro medaglie d’oro nelle Olimpiadi forse più contestabili della Storia. Nei giochi creati per celebrare la superiorità della razza ariana, cui Goebbels teneva in modo particolare, la discriminazione razziale ebbe un ruolo attenuato solo in apparenza, perché per i gerarchi fu inaccettabile la supremazia atletica dimostrata da un nero proprio come fu censurata la partecipazione di due atleti ebrei nella squadra statunitense. Tutto questo, certo, trova spazio nel film, come si sottolinea la somiglianza di quella Germania con quella America. “Non c’è molta differenza tra i nostri due paesi” dice Owens al tedesco Carl “Luz” Long, rivale nel salto in lungo e poi amico nell’unica scena dal sapore autentico, in cui Hopkins mette da parte per un attimo l’atteggiamento didascalico per privilegiare un’atmosfera per la prima volta intima, in cui non c’è niente da dimostrare, ma un’idea forte da condividere. Al contrario appaiono frettolose e senza il giusto peso le scene più politiche del film, lo sdegno di Hitler e l’indifferenza di Roosvelt, perché se il primo lasciò lo stadio per non doversi congratulare con il campione nero, il secondo lo ignorò per tutta la vita. Ma su questi punti, inspiegabilmente, Hopkins resta in superficie, dedicando loro solo pochi minuti di sano imbarazzo, senza alcuna volontà di avanzare dubbi sui contesti diversi in cui lo stesso gesto viene ripetuto. Sono proprio le incertezze, le zone grigie a mancare in Race, banalizzato dai dubbi che non vengono sollevati e da una generale e artificiale limpidezza che sembra regnare su tutto, nonostante l’opacità severa delle circostanze.