Rievocazione ibrida, Jurassic World: La rinascita di Gareth Edwards

Non si sentiva il bisogno di vedere aggiungere un nuovo pezzo al già intricato, vastissimo, a tratti inconcludente puzzle di Jurassic World eppure, in questo quarto capitolo della saga – La rinascita, distribuito a cavallo dell’uscita della terza serie animata prodotta da DreamWorks Animation e diffusa da Netflix (Jurassic World – Teoria del caos), peraltro molto interessante per come è finora riuscita a rimodulare il format senza smarrire l’originaria efficacia – si riscontrano anche scelte azzeccate con il tentativo di rilanciare un franchise che in tanti davano per morto, da tempo sepolto, difficilmente da rianimare. Tre anni dopo i fatti narrati in Jurassic World: Dominion i dinosauri fanno parte del mondo e convivono con gli umani senza troppi intoppi: alcuni esemplari si sono estinti a causa del cambiamento climatico, altri sono stati relegati nel centro Africa, in una zona protetta. Le attenzioni di un’importante azienda farmaceutica, rappresentata da Martin Krebs, sono conquistate dalla possibilità di creare un farmaco ottenibile da un enzima che si trova nel DNA di alcuni dinosauri, in grado di prevenire qualsiasi malattia cardio-vascolare ma destinato ai ricchi. Questione non banale perché si deve ricavare l’enzima non da un qualsiasi essere vivente ma dalle tre specie più temibili in circolazione: il predatore marino Mosasauro, il gigantesco erbivoro Titanosauro e il flagello dei cieli, il grande alato Quetzalcoatlus.

 

 
Per realizzare il piano, Krebs recluta l’agguerrita Zora Bennett (Scarlett Johansson), il suo fidato e esperto navigatore Duncan Kincaid (Mahershala Ali), una manciata di altri mercenari pronti a tutto pur di difendere e scortare il paleontologo idealista Harry Loomis (Jonathan Bailey) sull’isola di Saint-Hubert, luogo in cui la InGen svolgeva i propri esperimenti per raccogliere DNA. La missione però si complica quando il gruppo di ricercatori incontra la famiglia Delgado, casualmente finita nel loro raggio d’azione. Benché esile e poco originale, la trama presenta diversi spunti interessanti. Anzitutto si deve riconoscere il tentativo di favorire una fertile ibridazione tra generi e forme. Infatti, se da una parte il film persegue l’idea di riavviare il fascino per una messa in scena ludica, labirintica, selvaggia, costruita intorno ad un racconto avventuroso e divertito, ambientato su un’isola infestata da temibili dinomostri, dall’altra la dose di adrenalina e azione è controbilanciata da una componente umoristica e fantasiosa che smorza i toni cupi, i temi eticamente discutibili e ecodisastrosi dell’intero progetto, sempre ancorato al desiderio di credere fortemente nel passato.

 

 
Quindi, va da sé che questo sia un modo sfacciato, ma convincente, per convocare un tipo di spettatore a suo modo ibrido, che spazia dall’adolescente bulimico di popcorn e consumatore di emozioni forti, all’adulto nostalgico del parco creato da John Hammond, alla ricerca di nuovi eroi con cui lottare e di nuove immagini per cui commuoversi, disposti a varcare le porte di un nuovo set-mondo. Una strategia furba che tiene conto anche di altre due componenti funzionali. Se da un lato il film di Gareth Edwards attraversa le dinamiche di un giocoso viaggio nel tempo, tanto dal punto di vista della narrazione – perché le creature sono esemplari di un tempo che non c’è più (il film suggerisce i dinosauri sono superati, interessano poco o nulla) – quanto dal punto di vista estetico – perché rievoca e ammicca ai titoli capostipiti di un genere che ha codificato l’immaginario cinematografico degli anni ’80 – è oltremodo evidente che l’uso di facili meccaniche proprie dell’intrattenimento più immediato, sposti il film in una zona grigia che oscilla tra l’horror splatter, il monster movie e il dramedy per famiglie, generando un godibilissimo effetto straniante.
In che modo altrimenti dovremmo leggere l’incipit del film, se non come un invito a non prendersi troppo sul serio ma a fare i conti con l’inevitabile inquietante e tremenda legge del caso? Jurassic World: La rinascita si autodenuncia dopo pochi minuti dal suo inizio: il tragico incidente all’interno del laboratorio dove la InGen conduce le proprie sperimentazioni aggressive unendo specie diverse di dinosauri è causato dalla noncuranza di un addetto ai lavori che getta a terra la carta della sua merendina, scatenando una tremenda sequenza di reazioni a catena che sfociano nella genesi di un impressionante creatura divoratrice. Ancora una volta, è il conflitto irriducibile tra cultura e natura ad essere portato in scena.

 

 
A tutto ciò si affianca un discorso devozionale nei confronti del cinema di Spielberg (ovviamente in veste di produttore esecutivo) e quindi una riflessione sul cinema che parallelamente contamina il senso del fare blockbuster mostruosi, oggi. Altrimenti che senso avrebbe la lunga sequenza dell’attacco del Mosasauro se non fosse leggibile come un omaggio a Lo squalo nel suo cinquantesimo anniversario? Oppure, l’estenuante sfida contro il tempo per aggiudicarsi l’uovo del Quetzalcoatlus per analogia, non guarda a Indiana Jones? E il (bel) duello nel fiume con il T-Rex non è degno della suspense più dura e pura, autentico ingranaggio che svela la natura delle illusioni del cinema? Il film sembra domandarsi continuamente questo: è vero che, come accade agli umani nel film, anche negli spettatori del cinema di oggi i dinosauri non destano più meraviglia? Ecco, Jurassic World: La rinascita, per quanto ruffiano possa rivelarsi, è da guardare così, senza troppe pretese ma con gli occhi di chi è disposto a stupirsi ancora una volta, cercando da qualche parte un motivo per immaginare, credere, resistere e lottare.