ELISA

Riparare il dolore: a Venezia82 Elisa di Leonardo Di Costanzo

Cercare alleanze. È ciò che auspica Elisa (Barbara Ronchi) al termine del proprio percorso di ricostruzione della memoria e dell’identità quando comprende che il proprio dolore può essere, se non superato, almeno condiviso e in un certo modo accolto da qualcuno in grado di ascoltare senza giudicarla. Titolo nominale, quindi, storia di lacrime, sangue e memoria sbiadita, Elisa è l’ultimo lungometraggio realizzato da Leonardo Di Costanzo attento ancora una volta ad indagare e lasciarsi interpellare dalla complessità del sistema di raccordo tra colpe e giustizia, rimorso e riscatto che abita l’essere umano, come già nelle sue precedenti opere, soprattutto nel precedente Ariaferma. Presentato in Concorso a Venezia 82, scritto a sei mani con i sodali collaboratori Bruno Oliviero e Valia Santella, pur presentando un impianto a tesi essendo liberamente ispirato al saggio Io Volevo ucciderla dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, edito in Italia da Raffaello Cortina Editore, il film è interessato a mettere in scena un fitto reticolato di relazioni umane capaci di supportare il percorso interiore di una donna colpevole di una tragica violenza e di fare affiorare un’opportunità di luce e salvezza.

 

 
Nata durante la scrittura e la realizzazione di Ariaferma – film che lasciava fuori campo i crimini commessi dai detenuti, come dichiarato dallo stesso Di Costanzo – l’idea di questo nuovo progetto «si ispira a quei crimini che colpiscono profondamente l’immaginario collettivo proprio perché commessi da persone apparentemente insospettabili». Infatti, Elisa personaggio-film si muove a partire dalle ombre, vere gabbie capaci di riflettere la vasta gamma delle sofferenze umane ma pure spettro di una freddezza manipolatoria che disturba e disorienta sia su un piano palese lo spettatore, sia su un piano latente chiunque scelga di guardare il male da questa prospettiva. Oltre ad essere l’unica forma a interrompere l’inesorabile ritmo geometrico delle rette che infrangono il volto austero della protagonista, le curve di una strada di montagna sono l’unico elemento in grado di spezzare l’ordine delle apparenze che nega l’esaustività di un’immagine in via di definizione, in fase di scrittura ma anche lettura (propria e da parte degli altri).

 

 
Elisa personaggio-film oscilla quindi tra la comprensione del proprio percorso interiore e il rifiuto profondo verso chi è stato capace di compiere un atto estremo e per queste ragioni, al termine di questo viaggio invoca alleanze salvifiche tanto nel padre (Diego Ribon) quanto nello psichiatra che lo assiste (Roschdy Zem). Come contrappunto ideologico, è determinante lo sguardo di Laura (Valeria Golino) che al contrario di Elisa dichiara disperatamente: «ho guardato il male negli occhi e non è servito a niente», esemplificazione di un perdono incapace e altrettanto doloroso. Elisa assume un valore politico nel momento in cui Elisa personaggio smette i panni invisibili del fantasma, scegliendo di mostrarsi e farsi vedere per quello che è, assumendo così i contorni di un film che denuncia consapevolmente le tendenze di una società troppo spesso ancorata all’incapacità di riconoscersi in quei percorsi di giustizia riparativa che provano a non tenere conto solo del male inferto e subito.