Sing 2 di Garth Jennings e il respiro dei musical classici

Squadra che vince non si cambia. È quello che deve aver pensato Garth Jennings mettendosi al lavoro sul sequel del suo, bellissimo, Sing (2016). In effetti, Sing 2 non è che sia lontano dal precedente lungometraggio, anzi. Oltre a non cambiare i personaggi (ci sono un paio di defezioni e un paio di nuovi innesti, ma la base è sostanzialmente la stessa), Jennings non cambia nemmeno struttura. Sì, d’accordo, le avventure e i sogni dell’irresistibile koala Buster Moon lo portano a confrontarsi ora con il palcoscenico più grande e ambito del mondo (una città costruita su caricatura di Las Vegas), a doversela vedere con cinici lupi mascherati da produttori musicali e imparare a gestire divi vanitosi e viziati. Tuttavia lo scheletro di Sing 2 è identico a quello del primo capitolo: un sogno di partenza, un gruppo pronto a tutto pur di agguantarlo, un percorso per avvicinarsi, una caduta inevitabile dalla quale nascerà un’insperata quanto emozionante rinascita che si concretizza con il raggiungimento dell’obiettivo. Se quindi non cambia la squadra, non cambia nemmeno il copione. Eppure, Garth Jennings è ben consapevole di questo limite e invece di provare a superarlo, decide di abitarlo. Sing 2 non ha infatti nessuna pretesa se non quella di restituire al meglio uno spettacolo (cinematografico in primis, ma anche musicale) tra le fila della trama, di divertire, di emozionare e abbagliare con i suoi numeri canori pirotecnici, sorprendenti e irresistibili. Il canovaccio di questo sequel, così come quello del capitolo originale, sembra essere uscito direttamente dai musical dell’epoca classica, quando opere come La danza delle luci (1933) o Modelle di lusso (1952) utilizzavano un pretesto narrativo solamente per poter poi portare in scena coreografie indimenticabili.

 

 

Ecco allora che il primo piano sul volto meravigliato e genuinamente trepidante di Buster Moon con cui si chiude Sing 2 non è nient’altro che lo specchio delle espressioni di tutti gli spettatori, grandi e piccini, giunti fino a quel momento del film. L’apparente semplicità di questo lavoro (avercene di sequenze come quelle ideate da Jennings nell’ultima parte della pellicola) diventa quindi un valore aggiunto più che un limite da sottolineare. Certo, senza troppa originalità, con un minutaggio non del tutto giustificato, e una parentesi davvero interessante ma purtroppo non sfruttata a dovere (la figura della felina rockstar in esilio dalle scene), sarebbe facile (e forse non del tutto a torto) ridimensionare il valore del progetto. Non bisogna però dimenticarsi che è proprio nella sua veste più fanciullesca, semplice e lineare che Sing 2 vuole proporsi. Alla fine, è sufficiente prendere un bel respiro, chiudere gli occhi e iniziare a cantare. Tutto qui. Questo è l’invito che Buster Moon rinnova in ogni episodio ai suoi talenti. Questo è l’invito che Garth Jennings rivolge a noi spettatori. Il resto non conta.