Un’altra favolaccia sulle colpe implicite dell’esistere da uomini su questa terra affamata di sazietà: Damiano e Fabio D’Innocenzo non mollano la presa e anche con America Latina (ultimo italiano in Concorso a Venezia 78) insistono sulla periferia del vivere, sui confini estremi della quotidianità, i margini di una forma di coscienza estrema, l’epidermide di una consapevolezza profonda che si traduce nello schianto di ogni parvenza e di ogni speranza. America Latina è la perfetta controcopia di Favolacce, racconta il medesimo dramma, invertendolo però dalla dimensione corale e ampia di quella parabola multifamiliare alla dimensione totalmente introflessa di questa sorta di thriller mentale. Che è interamente incarnato in un ometto stolido e ordinato che si chiama Massimo, di professione fa il dentista di lusso ed è affidato all’interpretazione allucinata di Elio Germano. La sua vita si svolge nell’ordine quotidiano del lavoro in studio e degli affetti che lo attendono a casa, incasellati in un mondo senza sbavature e anche un po’ lezioso: la moglie e le due figlie che lui vede come statuine di porcellana a corredo della lussuosa villa che abita in Agro Pontino, dalle parti di Latina (da cui il fuorviante titolo scelto per il film). Ai margini di questo scenario ci sono il rapporto rancoroso col vecchio padre che vive da solo e gli appuntamenti per una birretta in compagnia di un amico d’infanzia meno fortunato di lui. E poi c’è lo scantinato della villa: che dovrebbe essere vuoto ma che un giorno, quando Massimo scende in cerca di una lampadina, gli si rivela il luogo in cui è sepolto tutto l’orrore che cova la sua mente: una ragazzina imbavagliata, legata e terrorizzata giace lì e lui proprio non capisce come vi sia arrivata… Quello che segue è la narrazione del terrore che attanaglia Massimo, l’intrusione nei suoi stati mentali sempre più alterati, in cui il dubbio sul confine tra realtà e follia si traduce in un orrore che una trappola per le sue paure. Prima fra tutte quella di perdere il controllo del suo mondo e delle persone che crede di amare e dalle quali ritiene d’essere amato, o forse solo ingannato.
I D’Innocenzo costruiscono il film sull’avvitamento mentale del protagonista, spingendoci sempre più in profondità nei suoi stati percettivi corrotti, intossicando la messa in scena con l’angoscia di questo uomo che dubita di se stesso e ci induce a dubitare di noi. Perché poi rimaniamo sospesi sull’incertezza che l’intero universo familiare di Massimo sia una proiezione delle sue fantasie turbate. Dubbio non di poco conto, del resto, almeno nella prospettiva della soluzione finale del dramma, in cui si gioca la redenzione soggettiva del protagonista o la sua condanna da parte del mondo. A fronte di tutto questo c’è però un film sostanzialmente sbagliato, in cui lo straordinario talento visivo e narrativo dei D’Innocenzo implode in una messa in scena che troppo ambisce alla soggettività, troppo si aggrappa al turbamento del protagonista e, di conseguenza, all’interpretazione atterrita di Elio Germano, senza poggiare su una dimensione oggettiva che stabilisca le coordinate. È evidente che sia proprio questo l’obiettivo dei due fratelli, ma l’esito è sordo come un’implosione che non lascia materia e detriti in cui cercare: manca la loro capacità di irradiare la lettura nel tessuto reale in cui si muove il protagonista, si ha la sensazione che prevalga l’esercizio visivo, che pure risulta oggettivamente notevole nella sua traslucida opacità, nella serrata fisicità da cui estrae la dimensione mentale. Il cinema dei D’Innocenzo si basa su un equilibrio molto sottile, che richiede coraggio ma anche accortezza per non mancare l’obiettivo.