Spirit – Il ribelle di Elaine Bogan e il mito della frontiera

Iniziamo dalle origini. Era il 2002. Dreamworks aveva alle spalle giusto una manciata di lungometraggi prodotti in circa quattro anni di attività. Un tempo brevissimo, ma sufficiente per quel geniaccio di Jeffrey Katzenberg per dar vita alla principale e, ad oggi, storica rivale di Disney. Sono anni di grande sperimentazione (il digitale di Z la formica, progetti “kolossal” come Il principe d’Egitto), grandissima qualità (si pensi alla collaborazione con Aardman nel piccolo gioiello Galline in fuga) e soprattutto estrema soddisfazione (Shrek vince il primo premio Oscar dedicato all’animazione e traccia una linea netta e spartiacque nel settore). Qui, l’ennesimo film degno di nota troverà posto provando a omaggiare la tradizione cinematografica non solo con un lungometraggio animato con tecnica classica, ma provando a cartoonizzare il genere più canonico di sempre: il western. Spirit – Cavallo selvaggio è infatti un riassunto perfetto e avvincente di tutte le tematiche legate al mito della frontiera: dalla convivenza tra bianchi e indiani sino alla libertà della natura selvaggia costretta al dominio della moderna industria umana. Oggi arriva sugli schermi Spirit – Il ribelle che, attenzione, non è assolutamente un sequel, né un remake del titolo originale. Il film piuttosto è una sorta di reboot cinematografico di una serie animata del 2017 (poi approdata su Netflix l’anno seguente). Anche in quel caso, i legami con il lungo originale erano quasi del tutto assenti, eccezion fatta per il titolo e la caratterizzazione del mustang protagonista.

 

 

Eppure, è interessante notare come questo nuovo lungometraggio di Spirit, lontanissimo dal titolo del 2002 per tutta una serie di motivi, sia comunque “fedele alla linea” e costituisca una sorta di revival della grande epica western. Ora, l’idea alla base di Spirit – Il ribelle è molto semplice: sfruttare il rilancio del franchise (la serie televisiva ha avuto un buon riscontro di pubblico) e insistere nel dialogare con gli spettatori di più giovane età. Questa tendenza a rifugiarsi in un target infantile non è una novità in casa Dreamworks, anzi, ha segnato di gran lunga le produzioni cinematografiche più recenti (si pensi a operazioni come Baby Boss, Capitan Mutanda, Trolls o Il piccolo yeti, tutti film rivolti ai più piccini e che hanno per protagonisti proprio dei bambini). In Spirit – Il ribelle si nota dai primissimi minuti l’intenzione di insistere su questo percorso. Il film, prendendo le mosse dalle coordinate narrative inaugurate dalla serie televisiva, è drammaturgicamente molto semplice, si muove in una comfort zone che evita tematiche sensibili (anche il lutto presentato in apertura è di gran lunga levigato), con colori vivaci, linee di disegno morbide e una struttura narrativa davvero elementare. Poco alla volta però l’opera diventa sempre più interessante proprio perché tematicamente prova a costruire un ponte che in qualche modo lo colleghi al film originale del 2002. Nella seconda parte di Spirit – Il ribelle è infatti il West a prendere sempre più spazio. Certo, si tratta di una dimensione sempre declinata a portata di bambino, di fatto però vi ritroviamo molti topoi come l’assalto al treno, la corsa con il bestiame, la presa al lazo, una “caccia al tesoro”, le canzoni attorno a un bivacco e l’opposizione tra la modernità e lo spirito selvaggio della frontiera (qui simboleggiato dalla faticosa convivenza del carattere avventuriero della giovane protagonista e quello troppo protettivo di un papà in apprensione). È in questi momenti che il film di Elaine Bogan trova la sua giusta dimensione, il suo carisma più convincente. Così, il lungometraggio non è nient’altro che la forma filmica della scena più iconica di tutto il franchise, ovvero quel salto nel vuoto, tanto audace quanto mozzafiato: un balzo che collega due mondi lontani (la serie e il cinema) e finisce per diventare una fonte di ispirazione per chi lo ammirerà a bocca aperta. O almeno si spera.