Tortuose le strade del cinema italiano, con le sue derive storicistiche che reinventano il tempo in un dialogo vernacolare tra passato e presente, dove l’oggi, con tutte le sue contraddizioni, si riflette nelle miserie di ieri. Prendete Il pataffio di Francesco Lagi, in competizione a Locarno 75, che riattiva tutto un flusso di affluenti nella grande corrente (neo)realistica, in cui il romanzo di Luigi Malerba risalente al 1978 si fa portatore di tutto un magnifico universo letterario e cinematografico in cui si ritrovano Zavattini e i zavattinidi, Citti e i suoi fratelli, ma anche Benigni e Bertolucci Giuseppe, Fo, Bene… Dottrinari ed eretici di una elaborazione del corpo complesso di una cultura popolare affamata proprio di lingue e linguaggi, del dire e del suo modo, torturata dall’idea che, fatta l’Italia, erano stati fatti gli italiani e dunque l’italiano, inteso come lingua… Malerba di questo è stato ben consapevole, Le parole abbandonate è del 1977 e Il pataffio dell’anno successivo (ripubblicato nel 2015 da Quodlibet) ne è la posa in opera letteraria, proiettata in un fuoritempo storico, millenario e brancaleonesco, che performa un italiano volgare nella narrazione di un medioevo dimenticato da Dio e dagli uomini. Donchisciottismo decaduto nel feudalesimo italico straccione e miserabondo, che lo stesso Malerba (che è stato anche uomo di cinema e televisione) aveva già traslitterato nelle Storie dell’anno Mille, sfortunato progetto televisivo diretto da Franco Indovina, scritto assieme a Tonino Guerra e mai trasmesso dalla Rai se non, tre anni dopo, in una versione rimaneggiata e doppiata (persino Carmelo Bene!) proprio per smussarne le asperità linguistiche…
Il pataffio di Francesco Lagi, dunque. Bel progetto di Vivofilm assieme a Raicinema e Colorado, che spinge in direzione di una reiterata commedia boccaccesca in chiave alta tutto quel flusso di storicismo astratto che sta interessando certo cinema italiano (da Bella e perduta a Lazzaro felice e Piccolo corpo, per intenderci). Lagi, autore anche della sceneggiatura, fa un bel lavoro di piazzamento del testo di Malerba sulla scena della commedia, accettando la sfida brancaleonesca con coraggio che desume dalla matrice letteraria stessa, ma consapevole che la sua posa in opera cinematografica rischiava il paragone molto di più. Il film, va detto, ne esce indenne, tutt’altro che derivativo e citazionistico. Semmai, l’incipit in plongée con la carovana del Marconte Berlocchio che procede sontuosamente straccionesca e stracca sul terreno quasi desertificato, tiene insieme Monicelli e lo stesso Malerba delle Storie dell’anno Mille. Ma poi l’impianto si impone subito per la sua dinamica, in cui non si gioca tanto sui caratteri, tutti molto definiti va detto, quanto sul loro valore in scena. Il pataffio, infatti, è una storia sul potere, sulla sua nullità a fronte di un’umanità azzerata, in cui il valore non ha più alcun significato né in senso economico né in senso etico. Il Marconte Berlocchio (Lino Musella, bella presenza straniante del nostro cinema) arriva col suo codazzo di soldati scalcagnati, fiero di un titolo che manco esiste, inventato per lui da un signorotto che gli ha dato in sposa la candida e abbondante figlia Bernarda e in dote un castello decrepito e le relative terre, popolate da pochi miserabili, il più loquace dei quali è Migone, interpretato da Valerio Mastandrea.
Della raminga corte fanno parte anche Frate Cappuccio, cappuccino che elargisce roboanti sermoni e approssimative benedizioni interpretato da un Alessandro Gassman quasimodeo, e Belcapo, il consigliere interpretato da Giorgio Tirabassi bravo nel tenerlo opportunamente in equilibrio più degli altri tra grottesco e naturalistico. Il film è tutto scritto sul progressivo annullamento delle dinamiche di relazione tra potenti e sottomessi, in un continuo gioco di negazione del ruolo di potere incarnato dal Marconte, disconosciuto dal mondo di cui pretende di prender possesso. Francesco Lagi tiene quasi sempre ben tesa la corda della rappresentazione, evitando le trappole del troppo dire il significato della parabola. Solo qua e là (soprattutto nelle elaborazioni troppo esplicite e consapevoli di Migone) perde il ritmo. D’altro canto piace anche che il film non prenda mai la strada di una affabulazione lirica, evitando i simbolismi e le astrazioni e tenendosi sempre coi piedi per terra, ben piantati nel territorio di quella che tutto sommato intende essere una commedia alta. Le musiche di Stefano Bollani, che in un paio di brani orchestrano anche i versi dello stesso Malerba, coronano il progetto e omaggiano con discrezione il monicelliano Carlo Rustichelli.