Quando ero bambino, il mio ghiacciolo preferito era quello alla Coca-Cola. E non se ne trovavano molti. Anche perché siccome era marrone, c’erano dei baristi che ti rifilavano quasi sempre il tamarindo. E comunque. Io credevo fosse alla vera Coca-Cola, sembrava proprio la vera Coca-Cola, ma era invece un più sfuggente “gusto cola”, che poi la sensazione reale della Coca-Cola te la dava solo lavorando d’immaginazione ma pazienza. Era buono lo stesso. Cosa c’entra il ghiacciolo alla Coca-Cola con la saga di Star Wars? C’entra. Per cominciare, al baretto davanti al cinema Manzoni di Milano ce l’avevano. E poi perché il cinema Manzoni di Milano è il cinema in cui ha debuttato il 21 ottobre del 1977 Guerre Stellari. E anche perché io ero lì, al cinema Manzoni di Milano, alle tre meno qualcosa del pomeriggio di quel preciso giorno, col biglietto in una mano e il ghiacciolo “gusto cola” nell’altra. A rimirare ansioso le maschere curiose ma ancora prive di magia di Chewbacca e C-3PO degli studi Don Post esposte in teche trasparenti nell’atrio gigantesco di quella storica sala. Un tempio del cinema, al di fuori del quale tre anni prima sostava un’ambulanza in pianta stabile per soccorrere i traumatizzati dalla visione di L’esorcista. Bei tempi. Innocenti. Sognanti. Analogici. Dove le attese non erano aggiornamenti di stato di FaceBook o ansia da ricerca di leak in Rete, o distillazione globale di informazioni pilotate per generare condivisioni e retweet. Perché il Cinema (quello vero, qualsiasi cosa ciò voglia dire, e Guerre Stellari è più di ogni altro un frammento perfetto di questa verità), viveva anche e soprattutto di queste piccole grandi dilatazioni espansioni intrusioni e compresenze della sua stessa essenza nella vita reale, che il tempo trasformava poi in esperienze tangenziali, stupori irripetibili, autodafé impossibili, memorie e leggende che non sai più neanche tu se erano vere o auto-inception. Perché la Forza, alla fine non era nient’altro che il Cinema. Lucas lo sapeva. JJ Abrams lo sa. Star Wars – Il risveglio della Forza è un titolo che è stato dato così per scontato da non essere stato oggetto di nessun’altra interpretazione se non di quella letterale/narratologica (anzi, trattandosi di una fede alternativa di massa, esegetica): e invece era/è anche (o solo) l’annuncio che quel Cinema, il cinema/epifania pubblico e universale, ma generatore di esperienze ed euforie private trascendenti la singola (o reiterata) visione, stava per tornare.
È gia passato un mese dall’uscita nelle sale di quello che per comodità continuiamo a indicare come Episodio VII (nella truka/prologo iniziale la numerazione prosegue, nel titolo “commerciale” è stata invece intelligentemente omessa). Un mese in cui ogni precedente record d’incasso domestico (relativo: ma anche con gli aggiustamenti di rivalutazione finirà decimo o nono nella classifica dei maggiori successi di sempre) è stato polverizzato. E un mese, nell’economia di flusso delle informazioni del contemporaneo e del riassorbimento degli eventi nella memoria collettiva, è ormai un lasso di tempo infinito. Ma anche, in questo caso, una parentesi transitoria distorta in cui chi ha voluto sapere prima della verifica di visione non ha comunque saputo tutto, e chi non lo ha voluto è stato a maggior ragione rispettato grazie alla più sofisticata forma di ricatto mediatico imposto (gli embarghi) e implicito (il no-spoiler) mai attuata. Ma se per i fan la consegna del silenzio era in qualche misura un imperativo ipotetico, è stato divertente (eufemismo per “terrificante”) leggere per tutto questo mese brevissimo e infinito articoli e recensioni (anche autorevoli) attentissimi a non ledere né la maestà fascista della macchina produttivo/comunicazionale né quella del (presunto) piacere di racconto. Fiumi di elucubrazioni anche sincere (capolavoristi e stroncatori hanno comunque potuto e saputo esprimere le loro opposte -ma sempre buone- ragioni) epperò giocoforza fasulle, poiché surrettiziamente costrette a essere incomplete proprio sul piano primario dell’analisi di un testo, qui completamente negato. Per esempio. La giovane scavenger Rey possiede la Forza. Questo, più o meno velatamente, potevano dirlo tutti. Ma che il malvagio Kylo Ren, figlio di Han Solo e Leia Organa (all’anagrafe cosmica fa Ben Solo), possiede (forse) la Forza come nonno Darth Vader ma uccide papà con una freddezza che lo allontana da qualunque altro personaggio della saga? Questo no. Non poteva dirlo nessuno. Né il “critico” che avrebbe comunque dovuto basare il suo lavoro (o parte del) su questa rivelazione, né lo spettatore più o meno affezionato che dopo la prima visione moriva dalla voglia di condividere un post o un tweet. Parimenti, nemmeno si poteva dire che Luke Skywalker è stato mentore di Kylo, che poi le cose si sono messe male, che in virtù di questo grumo (non spiegato) del passato l’ultimo Jedi si è autoesiliato su un pianeta segreto che per essere localizzato abbisognava dello sforzo “mnemonico” congiunto del droide di nuova generazione BB-8 e del vecchio R2-D2 in animazione sospesa da decenni. E nemmeno che su un piano più squisitamente teorico il sacrificio della “vecchia” star Harrison Ford (l’equivalente dell’eliminazione di Alec Guinness/Obi-Wan Kenobi: il grande attore inglese, icona di un cinema che nel 1977 era già “classico”, fu fatto fuori a 63 anni, dieci meno di quelli che ha oggi Ford) fosse il pedaggio zeitgeist necessario da pagare per agganciare tutto il pubblico degli ultimi quarant’anni e poi riconfigurare la saga a misura delle nuove generazioni. Eccetera. Sebbene riflettere su queste scelte, narrative e “valoriali”, avrebbe dovuto essere l’imperativo morale istantaneo di chiunque, ad avere la meglio è stata la necessità, indotta o meno, di tacerne. E i trasgressori, nell’epoca della notiziabilità supersonica simultanea di qualsiasi cosa -dal cascame di gossip alla strage dell’Isis-, sono stati pochissimi. Tant’è che digitando “Han Solo is dead” su Google per tutte le prime due settimane dall’uscita del film, gli unici risultati che si ottenevano erano rimandi a siti che rilanciavano il rumour sulla possibile morte di uno dei personaggi storici della saga, ma non ad articoli online vergati con la consapevolezza dell’accaduto. Un altro record -questa volta etico, ma non morale– di Star Wars – Il risveglio della Forza che difficilmente potrà essere battuto.
Comunque.
L’impresa chiesta a JJ Abrams era titanica: anche perché sono stati in molti, detrattori e non, a focalizzare l’attenzione sulla riuscita estetica ed economica del solo prodotto-film, mettendo in secondo piano o ignorando del tutto la ricaduta del suo indotto, centinaia di volte più consistente del suo incasso globale nei cinema. [Quanto costa un biglietto? € 10. Quanto costa una action figure basic? € 15. E quanto costa un Millennium Falcon Lego? € 300. TRECENTO. Chiaro?] La sua responsabilità, oltreché quella scontatamente artistica, era quindi innanzitutto quella di concepire e portare a compimento non solo un seguito alla trilogia classica (che funzionasse come punto di partenza per neofiti senza dimenticarsi di dialogare con i fan di quella che dal 1977 a oggi è passata da culto dell’immaginario collettivo a una simil-religione di massa), ma anche e soprattutto di mettere in campo un poderoso reminder per consolidare decine di migliaia di prodotti in franchising (la quantità di ditte coinvolte a livello mondiale è incalcolabile, e non esistono target di riferimento precisi: si può trovare il logo Star Wars su tazze, spazzolini, calze e mutande, ma anche su chitarre, skateboard, grattugie esfolianti per calli ai talloni o martelli pneumatici).
In più, data la cessione da Lucas alla Disney dell’intero pacchetto (se così si può chiamare un mostro ceduto per la modica cifra di cinque miliardi di euro) e la sua ferma rinuncia al coinvolgimento a qualsiasi titolo nella realizzazione del nuovo sequel, il carico di strozzo era rappresentato dal fatto che Episodio VII avrebbe dovuto “sembrare” Star Wars (ovvero “farci sentire a casa”, esattamente come Chewbacca e Han Solo sul loro vecchio rottame ritrovato) e possibilmente far dimenticare (e così è stato) l’incidente interlocutorio della seconda trilogia [i famigerati episodi I, II e III, poco amati anche dai fan di più stretta osservanza: a parere di chi scrive, però, non solo straordinariamente importanti per il loro portato tecnico/sperimentale, ma anche eccezionali indicatori della sensibilità “politica” di Lucas, l’unico vero erede a tutti gli effetti di David Wark Griffith. Ma è un altro discorso che non vale la pena aprire in questa sede e che ci porterebbe più off topic di quanto già non siamo]. Ma un conto erano Irvin Kershner e Richard Marquand (rispettivamente i registi accreditati di L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi), coadiutori -proprio nell’accezione ecclesiastica del termine- governati dalla longa manus lucasiana, un conto è JJ, l’uomo (apparentemente) solo al comando di un’operazione che avrebbe fatto tremare i polsi a qualunque shooter hollywoodiano.
La genialità di Lucas fu quella del sincretismo: la riorganizzazione frankenstein di frammenti del suo immaginario, da Flash Gordon a Tolkien, passando per il western, le epopee elleniche e i serial tv sci-fi degli anni Quaranta e Cinquanta, in un unicum non necessariamente originale ma sicuramente mai visto e potenzialmente (col senno di poi sicuramente) in grado di generare una nuova mitologia. Non si poteva dunque consegnare un ordigno come Star Wars in mano a un Autore, nel tentativo (non richiesto, e potenzialmente esiziale) di portare a termine il progetto nobilitandolo con una ricerca di sguardo personale (anche se resta la curiosità di sapere come lo avrebbero trattato, che so, i Wachowski. O Spielberg. O David Lynch. O Tarantino): si doveva puntare su qualcuno che per traslazione potesse perpetuarlo e rilanciarlo nell’unico modo possibile. Ovvero rifacendolo. Su qualcuno che anziché mettere insieme pezzi sparsi di passioni altre fosse in grado di lavorare di cesello su quella matrice unica che il tempo, il successo e la leggenda avevano nel frattempo trasformato. Abrams, la scelta giusta, ne è stato in grado: lavorando su quelle che sinora sono le sole caratteristiche unanimemente riconosciute di uno stile sostanzialmente invisibile. E applicando con ancora maggiore scientificità le medesime regole con cui ha riconsegnato alle platee l’unica altra space opera in grado di rivaleggiare con Guerre stellari nell’immaginario collettivo: Star Trek. Non deve quindi stupire l’idea di ricalco pantografato che è alla base della sceneggiatura di Star Wars – Il risveglio della Forza e che in molti hanno erroneamente liquidato come mancanza d’audacia o, ancor più erroneamente, come fan service: se lo Star Trek di Abrams era prima un reboot, poi un remake e infine un inaspettato sequel (e il suo seguito, Star Trek – Into Darkness, il sequel di un reboot e di un remake, ma anche il remake di un sequel, oltreché il sequel di un sequel: un’idea di cinema quasi frattale), Star Wars – Il risveglio della Forza è innanzitutto un sequel, ma che deve funzionare anche come reboot e sceglie di configurarsi effettivamente come meta-remake (di Episodio IV). Di cui l’immensità ridicola della base Starkiller (che era il primo cognome scelto da Lucas per Luke Skywalker…), sorta di Morte Nera #3 in grado di atomizzare contemporaneamente cinque pianeti anziché un solo Alderaan, funziona quasi come un’epitome rovesciata dell’intero progetto. Lo scherno di cui Abrams è stato fatto oggetto dalla critica più ottusa e programmaticamente superficiale (sebbene fosse simpatica l’idea che il “cattivo” Kylo Ren potesse essere un transfer di Abrams stesso, cioè un idiota senza esperienza che non ha capito un tubo della saga originale e nel tentativo di rimettere in piedi il passato manda tutto in vacca) è un sintomo di arretratezza che un cinema così avanzato (nel bene e nel male) non merita. Anche se, di fatto, recensire un film di questa ampiezza con i soliti strumenti microscopici e autoriferiti come quelli di cui ancor oggi certa critica si fa vanto, non ha molto senso né può produrre alcun effetto deterrente sui destinatari ultimi di un disegno così complesso. Perché Star Wars – Il risveglio della Forza è (anche) l’apice di un cinema sempre più frequentemente e perfettamente tautologico e che come tale non può essere oggetto né soggetto di alcuna contraddizione. È il ghiacciolo alla Coca-Cola di cui vi dicevo molte righe fa. Qualcosa che tu credi sia alla vera Coca-Cola, che sembra proprio la vera Coca-Cola, ma poi invece ha un più sfuggente “gusto cola”, che poi la sensazione reale della Coca-Cola forse te la dà solo lavorando d’immaginazione. Ma pazienza. È buono lo stesso. Anzi. È ottimo.