Checkpoint Berlin di Fabrizio Ferraro e l’irreversibilità del tempo

Un altro oggetto imprendibile, un altro tracciato di (anti)narrazione che non vuole rappresentare le cose, il dato, il mondo, ma esprimerli. Un viaggio vero e impossibile nella memoria. Checkpoint Berlin di Fabrizio Ferraro (in streaming su piattaforma RaiPlay insieme ad altre opere del regista: Wenn aus dem Himmel – Quando dal cielo, Colossale sentimento, Gli indesiderati d’Europa) è, di nuovo, cinema di impronte, cinema di un pensatore, un film radicale perché essenziale, limpidamente inesplicabile, che non racconta, o meglio, non intercetta, non ricrea “fatti”, ma forme, figure, incontri spezzati tra le linee del tempo e dello spazio, del documentario e della finzione, della memoria individuale e collettiva, storica e immaginaria. Checkpoint Berlin inizia e sembra subito di tornare agli Indesiderati d’Europa, a una sua versione inedita, a una scheggia schizzata via da lì, a un frammento sfuggito, non identificato, di onirica inquietudine e materia. La storia penetra ancora nella Storia: “Un regista si trova a Berlino per la proiezione di un suo film. Camminando per la città riflette sul Muro e sull’esperienza leggendaria di un suo parente, uno zio mai più ritrovato, fuor di senno per amore e divenuto da quel momento passeur tra le due zone della Germania divisa”. Questa la sinossi ufficiale del film presentato all’International Film Festival Rotterdam 2020 e che a marzo sarebbe dovuto anche arrivare in sala, da previsioni pre-virus.

 

La sinossi dà ordine a una sostanza che invece non ne ha, non può averne, a visioni che scompaginano il senso in un’affascinante molteplicità di traiettorie, al doppio movimento uguale e contrario (che in realtà ne contiene sempre altri, irrisolti, irreali, invisibili) che nel cinema di Ferraro ritorna, come quello sui Pirenei di Walter Benjamin e gli antifascisti spagnoli in Gli indesiderati d’Europa; come in Colossale sentimento con il “ritorno a casa” nel 2016 delle statue de Il battesimo di Cristo dello scultore Francesco Mochi, realizzate tra 1630 e 1640; come in Je suis SimoneLa condition ouvrière, SebastianO, Piano sul Pianeta (malgrado tutto, coraggio Francesco!) … Checkpoint Berlin, in poco più di 60 minuti, come una geografia nuova, parallela, ipnotica, si fa torsione fantasmatica del reale, di ciò che è esistito, e concrezione di ciò che non è esistito. Ferraro è un passeur del movimento doppio di zio e nipote, di passato e presente, di bianco e nero e colore, di immagini mobili e ferme, d’archivio e di finzione, della luce e del buio dello schermo e del tunnel che la coppia di innamorati qui deve attraversare per andare dall’altra parte, a Ovest. Tra la città e il bosco; tra il l’Incredulità di San Tommaso del seicentesco Guercino e i turisti nella Berlino di oggi; tra Godard e Rossellini; tra i muri e gli strappi della Storia, del potere, perfino dell’amore; tra attori che camminano, vagano, che sono presenze e assenze ma non sono personaggi; tra il conflitto e l’impossibile coincidenza tra la parola e il visivo, la dilatazione del tempo, dell’inquadratura, a demistificare il linguaggio, come radicale azione di avvicinamento, conoscitiva, estetica, morale. Cinema per pochi, di riprocessamento del senso, dei sensi, delle distinzioni nette, dolosamente analitico ed estremista, non comunicativo perché insostenibilmente trasparente. Lo si può respingere, o lo si può attraversare solo da viaggiatore, non da turista. Un cinema rigorosamente reversibile che lotta contro l’irreversibilità del tempo.