Sui binari della ferrovia, in mezzo al bosco, mentre Teddy e Vern discutono di supereroi, Chris e Gordy guardano avanti nel futuro con la speranza di scrollarsi di dosso un passato ingombrante: parlano di cosa andranno a fare a settembre, con l’inizio della scuola superiore. Pur di non abbandonare i suoi amici Gordy sarebbe disposto a rinunciare al proprio talento di scrittore e seguire, proprio come loro, i corsi professionali ma Chris a quel punto lo rimprovera: «È come se Dio ti avesse dato qualcosa. Tutte quelle storie che ti vengono in mente… Dio ha detto: “questa è roba tua, cerca di non sprecarla”. Ma i ragazzini sprecano tutto, se non c’è qualcuno che li tiene d’occhio. E se i tuoi vecchi sono troppo incasinati per farlo, dovrei farlo io, forse!». È uno dei dialoghi più struggenti di Stand by me di Rob Reiner, film del 1986 tratto dal racconto Il corpo, contenuto nella raccolta Stagioni diverse di Stephen King, di certo uno dei più importanti per comprenderne il senso, capace com’è di restituire con efficacia la tensione sentimentale che abita nella relazione tra i due amici (che cos’è l’amicizia se non un reciproco “tenersi d’occhio”?), nel corso dell’avventura più volte fotografata come un’atipica storia d’amore in cui ciascuno salva l’altro dalle atrocità del destino. L’epilogo del film nulla recide alla ricchezza vissuta dai quattro ragazzi in quei giorni d’estate, così strani e decisivi per definire il loro avvenire e la loro identità al cospetto dell’inevitabile, di una morte e di un tempo che si manifestano come luoghi da esplorare e limiti da considerare.

Tutto finisce ma alcune presenze restano, alcune immagini persistono e certi segni riempiono l’esistenza di conflitti, di parole, di visioni che penetrano e danno respiro a una forza che proietta altrove, da qualche parte, con il proprio modo. Ci sono immagini che promettono una salvezza, offrono la possibilità di credere ad un sogno, che tengono insieme il mondo anche di fronte al suo collasso irreparabile, come ricorda il terzo atto di The life of Chuck, l’ultimo progetto diretto da Mike Flanagan, tratto da una delle novelle di Se scorre il sangue di Stephen King (da cui aveva già adattato Il gioco di Gerald e Doctor Sleep ma anche la serie Prime Carrie). Si procede al contrario in questo film sulla meraviglia del vivere, a ricordare cosa conta in fin dei conti di fronte alla fine. Come accadeva nel quinto episodio di Midnight Mass, serie-apologo Netflix in cui Flanagan guardava la fine dei tempi, quando Erin (Kate Siegel) e Riley (Zach Gilford) sulla barca, prima dell’alba, si tenevano per mano dichiarandosi amore eterno, anche qui, realizzando un film-mondo che riflette ciò che accade nella mente-mondo del suo protagonista Chuck, uomo qualunque che non abbandona la possibilità di scrivere un’esistenza straordinaria, il regista statunitense sceglie di mettere in scena l’implosione del tempo che si sgretola attraverso un prologo/epilogo collocato all’inizio del racconto che celebra la vita piccola ma preziosa e commovente di uomo artista, ballerino dallo sguardo dolce e pungente, abile con i numeri e amante ostinato delle stelle, architetto di una fitta trama di relazioni e sentimenti.

Tenere d’occhio quindi, estrarre il talento, affondare lo sguardo dentro “le moltitudini” che ciascuno di noi contiene, come ricordano i versi di Whitman che scandiscono il racconto, proprio come ricorda a Chuck la signora Richards (guarda caso interpretata da Kate Siegel). Ma anche tenere d’occhio nel senso di seguire con il proprio sguardo, e quindi catturare, tutta la bellezza e tutto il dolore che possono attraversare l’esistenza; fare i conti, come ricorda il nonno, con la fantasia e i desideri senza dimenticare la realtà innegabile della matematica; esporsi alla nostalgia dei ricordi guardando la nonna che danza e scuote il cucchiaio con cui sta cucinando come se fosse una batterista. È un film sulla meraviglia anche perché Chuck desidera che la meraviglia lo travolga e, proprio come gli ricorda il nonno, non lo tradisca quindi, per questo, è un film sul cinema. Sulla possibilità che il cinema possa ancora stordirci con la sua potenza e grazie a quelle immagini che desiderano stupirci e promettono di tenerci d’occhio.


