The Dressmaker: l’abito come strumento di potere

imagehandlerLa regista australiana Jocelyn Moorhouse non ama concedersi. Il suo ultimo film, Segreti (in originale A Thousand Acres) risale al 1997 ed era una sorta di Re Lear ambientato in una fattoria dell’Iowa. Due anni prima aveva diretto Gli anni dei ricordi (How to Make an American Quilt) dal romanzo di Withney Otto. Nel 1991 aveva scritto e diretto il suo primo lungometraggio, il curioso Istantanee (Proofs), premiato con una menzione speciale per la miglior opera prima al 44° Festival di Cannes, una black comedy con un cieco (Hugo Weaving), che va in giro a scattare fotografie, accudito dauna governante che lo ama e lo tiranneggia, e da un amico (Russell Crowe) che ha il compito di descrivergli le foto in non più di dieci parole. Ora torna nelle sale con The Dressmaker (a cui è stato aggiunto, abbastanza incomprensibilmente, nel titolo Il diavolo è tornato forse perché in una scena la “sarta” protagonista compare fasciata da un abito rosso fuoco). La Moorhouse ne firma anche la sceneggiatura, basata sull’omonimo romanzo di Rosalie Ham. Il film, presentato allo scorso Festival di Torino, è un diamante piccolo ma dal taglio prezioso, a molte facce. La storia è presto detta: dopo aver lavorato per anni in un’esclusiva casa di moda parigina, Myrtle “Tilly” Dunnage torna a Dungatar, il piccolo paesino dell’Outback australiano da cui proviene, per riconciliarsi con l’eccentrica madre. Nonostante il tempo trascorso, gli abitanti della città non la vedono di buon occhio. C’è un segreto nel passato di Tilly che lei stessa fatica a ricordare, ma che la rende invisa alla comunità. Per integrarsi, ma anche per vendicarsi dei torti subiti, non può che ricorrere all’unico strumento che possiede: le sue mani.

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È un western al femminile come Johnny Guitar di Nicholas Ray, dove lo scontro tra titane in un paese in cui gli uomini sono poco più che comparse si svolge a suon di taglia e cuci (sia quello di mano che quello di lingua) con forbici e aghi invece che con pistole: la granitica Vienna di Joan Crawford (il cui unico punto debole è l’amore infelice per Johnny, che in definitiva sarà un valido aiutante) diventa la combattiva e allo stesso fragile Tilly Dunnage di Kate Winslet, sola contro tutti (per lei l’amore combattuto per Teddy sarà il punto di svolta nel ripristino della verità). È un omaggio a Donne di George Cukor, dove l’abito è uno strumento di potere e di rivalsa sociale: ancora una volta il modello è la Crawford, che del resto la Winslet ha fatto suo meravigliosamente nella miniserie tv Mildred Pierce di Todd Haynes. È un dramma borghese di provincia come I peccatori di Peyton Place, come i turgidi mélo di Douglas Sirk, ma anche come la serie tv Desperate Housewives: nel passato della comunità c’è un misfatto tenuto segreto attorno a cui si ingorgano menzogne perfidie discriminazioni alleanze dolori vendette. È un thriller eccentrico come Otto donne e un mistero di François Ozon: il supposto omicidio nasconde altre verità… È un po’ Priscilla con Hugo Weaving nei panni del poliziotto cross-dresser. È un dramma con twist inaspettati che arrivano quando pensi che la felicità sia dietro l’angolo. Detto questo, è soprattutto un film dal cast strepitoso, capace di saturare tutti i registri, dal sentimentale al comico, dal grottesco al tragico, con Judy Davis che non riesce a perdere il suo fascino neanche sdentata e sporca e la Winslet che assomiglia sempre più alla versione rossa di Meryl Streep. Bravissimi anche i comprimari.