Va savoir e l’ebbrezza del cinema di Rivette

MrsMiracle_DVD_SleeveL’imprevedibilità è la chiave di lettura per sciogliere gli intrecci apparentemente complessi del cinema di Jacques Rivette. Basta abbandonarsi ad essa per godere appieno della lucida trama di segni e di gesti che compongono le sue storie e le sue narrazioni. Non serve forzare gli spiragli del senso, perché è sufficiente assumere lo sguardo della spaesamento che lo stesso regista ci offre nell’esordio dei suoi film. Non tanto per depistare lo spettatore e, quindi, sorprenderlo con invenzioni rohmerianamente sofisticate, ma solo per esaltare il meccanismo del cinema, lo stratagemma che crea la casualità di incastri tanto perfetti, la leggerezza dello scivolamento verso la conclusione. Il più rivettiano dei film di Rivette, allora, mi pare Va savoir, giocato com’è nell’andirivieni tra teatro e teatro, teatro e vita reale, teatro e cinema, salvo poi, scoprire che tutto, in questo film, rimanda alla prassi teatrale che il cinema, e Rivette stesso, sanno perfettamente interpretare. E non a caso il motivo dominante è cercato in Pirandello, assunto in virtù non tanto del suo intrinseco valore assoluto (una compagnia italiana che porta in scena, in giro per l’Europa, Come tu mi vuoi, testo perfetto per Rivette nel suo esaltare l’incertezza esistenziale a livello di pura teoria, e nella trama sottile di scambi di persona, di identità, di punti di vista) ma in quanto abile esempio di scatola cinese della rappresentazione. Del drammaturgo, infatti, Rivette ripete a suo modo la lezione dell’impossibile scissione di finzione e realtà, che anzi vivono, qui e altrove, in una sorta di rapporto osmotico l’una rispetto all’altra, l’una nell’altra. Le scatole, allora, si presentano con le pareti trasparenti, perché si faccia ancora più vana la separazione tra quello che succede dentro e quello che accade fuori, fino alla negazione conclusiva di qualsiasi distinzione tra i due “ambiti”. Come a dire che la finzione non esiste perché tutto è finzione.

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Così, nella storia articolata di Va savoir, fatta di ritorni, incontri, ricerche, piccole bugie, inganni e giochi di equilibrismo, si ha l’impressione di un movimento continuo, una danza ininterrotta che invade i set e li trasforma, ne fa spazio vibrante, partecipe e protagonista, coreografo che dirige i movimenti dei corpi e i ritmi del tempo (o dei tempi, legati ognuno al suo spazio) in uno spettacolo che ricalca i passi del musical, pronto in ogni momento a ricomporsi in un quasi silenzio, in una quasi immobilità, che è solo pausa musicale e necessaria al precipitare degli eventi in ebbrezza. Quella propria della commedia goldoniana verso la quale tendono, non solo il protagonista (nella sua ricerca segreta di un manoscritto inedito del Goldoni parigino) ma l’andamento stesso e la brillantezza del film. Da dr65377684d605894b5b24bb0281d84642amma a commedia burlesca, da gioco teatrale, sorretto da una parola statica e perentoria, al teatro luminoso dell’opera buffa, mossa nella varietà linguistica, eppure precisa nella definizione dei caratteri e degli ambienti. Lo stesso suono delle parole appare diverso, più ricco, la cantilena informe e straniante dello spettacolo pirandelliano si affianca ad un fraseggio più sciolto, nei dialoghi tra i due “commedianti” e in quelli dei personaggi che si trovano, via via ad incontrare, per compiersi, infine, nel funambolico confronto/scontro, nel duello, questa volta davvero ebbro, che si disegna nell’aria e che scioglie senza difficoltà i nodi e le tensioni, stilizzando in questo modo la girandola di rivalità (e di incontri) cui si assiste fin dall’inizio. Proprio nel segno di Goldoni è data la svolta del film, che sempre più abbandona il palcoscenico e si lascia condurre nell’imprevedibilità della luce naturale, attraverso le strade, i parchi, persino sui tetti di una Parigi che ricorda tutto il cinema di Rivette. I personaggi assumono rilievo e autonomia di gesti, gli interni cambiano, si arricchiscono di una dimensione di naturalezza che consente, poi, ai movimenti e alle situazioni, di trasformarsi, anche all’improvviso, di capovolgersi senza spiegazioni, pur nell’aderenza vigile e puntuale alle ragioni del racconto. Tant’è che il fluire viene intensificato da piccoli intrecci, tutti legati dalla presenza, quasi costante dell’attrice Camille e del regista Ugo. Gli intrecci si arricchiscono di piccoli oggetti: un anello che Camille ha rubato e che deve recuperare non senza “mettere in scena” un sua personale commedia. Il tutto nella continua alternanza tra vero e falso, riflessioni sull’identità, la memoria e il tempo che passa, dentro e fuori la metafora teatrale. E il tempo, ancora una volta in Rivette, diventa superficie su cui distendere le immagini cariche di storie, ma anche elemento attivo che scrive e determina le curve narrative, sguardo che chiede del tempo per essere visto, che si prende, a sua volta, del tempo da trasformare in attesa, per dilatare le sue braccia fino oltre la fine-senza-fine, risolta nella fretta e nella frenesia come nella commedia greca e latina. Ci si accorge quindi solo alla fine, che abbiamo assistito ad un viaggio nei modi e nelle forme della commedia, finale perfetto, che potrebbe essere un nuovo inizio.

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