Zhenia entra in scena all’improvviso, fisico possente e sguardo ascetico, presentandosi come un apolide senza passato che parla tutte le lingue: viene da Pryp”jat’ – l’angolo di Ucraina che del passato sovietico porta per sempre il marchio indelebile del disastro nucleare di Černobyl’ – ma sembra arrivare dal nulla per infiltrarsi in un quartiere asettico e borghese di Varsavia, simbolo grigiastro della nuova Polonia che guarda a Ovest. Fa il massaggiatore a domicilio e con il lavoro delle sue mani (e con quello parallelo del suo spirito, così apparentemente puro nella sua persistente laconicità) sembra alleviare solitudini e dolori, lutti e disperazioni che si annidano come polvere sotto il tappeto di quegli appartamenti scoloriti. La sofferenza si percepisce tra le superfici traslucide degli interni e sulle facciate linde delle case, immerse in un’omologazione senza scampo. Zhenia, come un pifferaio magico, si addentra per sciogliere nodi, muscolari e psichici, di adulti insoddisfatti e rabbiosi. Si dona corpo e anima, con un vago sapore cristologico, per far ipotizzare una redenzione che è destinata a non arrivare, per far sognare una neve che forse non scenderà più. In Non cadrà più la neve, la polacca Malgorzata Szumowska (che stavolta condivide la regia con il suo abituale direttore della fotografia, Michal Englert) si mantiene in equilibrio sul filo che separa fiaba e metafora, giocando spesso con ellissi e ripetizioni (e di queste ultime forse abusa), per regalare un’illusione di salvezza, una bolla di serenità, un afflato di sospensione a vite superficialmente felici ed esistenzialmente vuote.
Zhenia suscita un amore negli altri che è lo specchio rovesciato della loro disillusione, rappresenta – più che mostrare – ciò che poteva essere e non è stato nello scorrere raggelato delle loro vite. Ma se l’incipit, che gioca con il surreale e l’assurdo, ci trasporta in una sorta di bolla ipnotica che si diffonde nella prima parte del film fino alla reiterata presentazione dei personaggi che Zhenia visita e che, seguendo la lezione tolstojana, sono tutti infelici a modo proprio, via via che la narrazione procede il meccanismo sembra incepparsi, cede il passo a qualche situazione forzata, a qualche soluzione banale anche se inaspettata. Szumowska costruisce un’elaborazione originale che però si sfinisce nella ricerca di un continuo rilancio, di sempre nuove sottolineature, finendo per soccombere a una certa ridondanza, all’abbandonarsi a una carica metaforica sempre più ingombrante che finisce per sovraccaricare il film alle soglie del corto circuito. Zhenia infatti assume infine un ruolo simbolico di trascendenza, storica e metastorica (viene dal passato ma incarna un possibile, e differente, futuro), più mago e profeta che massaggiatore dell’anima, destinato a scomparire e a lasciare un vuoto incolmabile, un monito forse inascoltato, una memoria di sé scolpita nella neve che, forse per l’ultima volta, ricomincerà a cadere. Non cadrà più la neve è un oggetto multiforme, giocato sull’onda dei chiaroscuri (emotivi e non) ma che troppo spesso perde la strada e si scentra, vittima di rilanci non sempre giustificati, di ambizioni non sempre realizzate, di un disequilibrio che terremota e scuote meno di quanto vorrebbe.