Su Chili il calligrafismo visivo di Il mondo che verrà di Mona Fastvold

Abigail vive con suo marito Dyer in un luogo remoto nel nord dello stato di New York. La vita contadina è dura e resa ancora più dolorosa dalla morte della figlioletta, portata via da una malattia improvvisa e implacabile. Abigail e Dyer consumano le loro giornate seguendo i rituali di una comunicazione sempre più inceppata; lui perso nella fatica tra patate e maiali, lei con il ciglio umido di un’insoddisfazione sempre più compressa. A spalancare una finestra sul buio della sofferenza – a dare corpo concreto a una frattura interiore sempre più insanabile – arriva un’altra coppia di sposi, pronti a occupare gli spazi vuoti di una fattoria vicina. E se il marito, Finney, è un uomo severo e accigliato formato a Bibbia e dedizione alla terra, sua moglie Tallie è invece una creatura aerea, una massa di capelli rossi e una pelle diafana come tessuta nel cielo. L’incontro tra le due donne sembra aprire uno squarcio di possibilità – impensabili – in un quotidiano di scontata sottomissione e di resistenza a qualsiasi pulsione. Le due donne si avvicinano, si annusano, si sfiorano e pian piano lasciano spazio al desiderio, da sempre represso, già come idea prima ancora che come pulsione fisica. Il film che Mona Fastvold ha tratto da un racconto di Jim Shepard (con la collaborazione di Ron Hansen, già autore di una rivisitazione epico-intimista di una leggenda del West come L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford) racconta il nascere e l’affermarsi, naturale quanto indicibile, di un amore totalizzante tra due donne diverse e complementari, due forze centrifughe in un mondo che le vorrebbe mogli obbedienti e madri devote. Ma Abigail una figlia la sta ancora piangendo e Tallie non riesce a dare un erede al marito bigotto, venendo trattata, dall’uomo cresciuto e devoto alle Scritture, come un immorale ramo secco, un terreno infertile maledizione dell’agricoltore.

 

 

La narrazione si affida alla voce fuori campo di Abigail che sul suo diario annota i fremiti e i timori, il fiorire della passione e lo stupore per una ipotetica felicità. La durezza della vita sbatte e si scheggia contro il lirismo ostentato di pensieri e parole, le immagini lavorano per contrasto per accendersi di squarci di luce nei rari momenti sereni di solitudine tra le due donne. E la Abigail di Katherine Waterston sembra illuminarsi pian piano, riuscendo a scrollare dalla pelle le lacrime e la polvere che le incrostavano il volto; Tallie (Vanessa Kirby, vincitrice della Coppa Volpi) sembra una creatura aliena, paracadutata nel nulla da un mondo futuro (il World to Come del titolo) di cui ancora è un’eco lontana. Gli uomini, di contrasto, sono figure tetragone, con gli occhi rivolti alla terra, brutali e concreti, incapaci di una qualsiasi trasformazione. L’energia del film scaturisce dallo stridere di queste forze contrastanti e l’agire nervoso degli interpreti regala movimento e – a tratti – qualche briciolo di emozione. La scrittura – soprattutto nella voice over – risulta però troppo programmaticamente lirica, come derivata da un Malick non del tutto assimilato (si pensi soprattutto a I giorni del cielo) in cui sembra si voglia incastrare una presunta modernità femminile che risulta in più di un passaggio troppo rigida. Un certo calligrafismo visivo fa il resto, rendendo The World to Come un esercizio saltuariamente fascinoso e ripetutamente meccanico, che impallidisce di fronte ad altre “fanciulle in fiamme” viste al cinema di recente.