Ancora una volta Brizé e Vincent Lindon ci catapultano nel mondo del lavoro, non tanto per un’ossessione visiva o politica, quanto piuttosto per ascoltare le voci che da questo mondo provengono, come momenti essenziali dentro la vita di ognuno di noi o effetti collaterali di un sistema sempre più pervasivo e via via sempre più spietato che non permette alle nostre vite di funzionare a dovere, ormai da anni, dominato com’è da una malintesa corsa verso una competitività che frantuma ogni possibile soluzione alternativa, umana, solidale e, quindi, idealmente condivisibile. È su questi temi che il regista francese gira da anni con i suoi La legge del mercato, In guerra e ora con questo oppressivo, ma cristallino, Un altro mondo. In Brizè i temi del lavoro e della parallela vita privata si fanno intimi e sembra non possano sfuggire all’elaborazione del pensiero, ma non per questo, anzi, il suo cinema perde di interesse, tanto sa porre questioni non ultime nel panorama che si può vedere guardando al mondo del lavoro. Philippe Lemesle è un manager di successo. La sua vita è invidiabile quanto a benessere. Ma la sua esistenza sembra aprire delle crepe e la separazione dalla moglie metterà a dura prova i suoi nervi. Il figlio non sta bene e si sottopone a cure psichiatriche e su tutto pesa la sua assenza dalle cose familiari. Ma neppure in azienda le cose vanno per il verso giusto e la sua idea di salvare i posti di lavoro davanti ad un taglio preteso dal patron americano della Elsonn per la quale lavora gli si ritorcerà contro. Philippe dentro di sé desidera un altro mondo.
Un altro mondo è un racconto, come spesso accade nei film che si radicano nel mondo variegato e fragile del lavoro, fatto di scontri e di contrapposizioni. Philippe si trova al centro di questi aspri confronti con la sua superiore che opera a Parigi e controlla ogni sito d’azienda che lavora in provincia compreso quello di Philippe, con le rappresentanze sindacali che sanno metterlo alle strette, con la moglie che lo mette con le spalle al muro nella inziale e straordinaria sequenza delle trattative della separazione, nel rapporto difficile con il figlio nel cui futuro vede riflessa la sua stessa condizione dominata da un inestinguibile malessere, si riflette anche e nei confronti dei suoi stessi colleghi che lo abbandonano ad un destino segnato non condividendo la sua idea di solidarietà in favore delle maestranze. Al centro di questi temi vi è quello della spietata competitività che appartiene, sempre di più e in maniera preponderante alle relazioni sociali sotto ogni profilo le si voglia guardare. Così avviene nelle altre sfere, quelle alle quali appartiene Philippe, ma anche nei gradini inferiori della scala sociale e del lavoro al fine di una conservazione del posto davanti alla sempre più concreta possibilità di essere definitivamente esclusi senza alternative, da quel mondo. Il concetto è bene espresso nella call che i manager hanno con il proprietario dell’impresa, laddove davanti al mondo ideale e solidale disegnato dal progetto di Philippe per salvare l’azienda e soprattutto i posti dei suoi dipendenti verso i quali nutre un rispetto sincero. Il sig. Cooper pur apprezzando a parole quelle intenzioni, stronca ogni idealità vera o immaginaria, con uno stringente e non replicabile tema che è quello dell’interesse degli azionisti. Il capitalismo si nutre di cattiveria e non di efficienza e solidarietà ed è questo che Philippe imparerà a capire. Non c’è replica davanti a questa verità che si è fatta sempre più largo e sempre più assorbente rispetto ad ogni altra possibilità, se non quella di una seria riflessione sul tema di una umanità ridotta al lumicino e di una competitività che sembra corrodere alle basi ogni altra ipotesi di convivenza.
Una corrosione lenta e inesorabile che intacca la quotidianità e qui è quella di Philippe ad essere messa definitivamente in crisi con i suoi rapporti familiari che si fanno sfilacciati, la sua stessa vita interiore e pubblica quasi annullate. È sotto questo profilo che si fanno interessanti le riflessioni di Brizé attorno al suo film. Si chiede, il regista francese, come sia possibile ammettere che un personaggio come Philippe che fa parte di quella sempre più ristretta sfera di privilegiati, possa avere il diritto di ribellarsi, avendo la disponibilità del benessere. Ci sembra che proprio questa sia l’ottica attraverso la quale guardare a questo film che nella sua estrema intimità si rivolge proprio a questo diritto, diremmo umano, di desiderare un altro e differente tipo di relazioni e un altro e diverso modo di considerare la qualità del lavoro in ragione della sua necessità. Il mondo di Philippe, corroso com’è alle fondamenta da questo tarlo ineliminabile di una totalizzante necessità di essere competitivo resta diviso in due ed ha ragione, ancora una volta, Brizé quando afferma che quello che si descrive “è un mondo silenziosamente diviso in due, di vite professionali e personali che naufragano, di un mondo in cui uomini e donne in cravatta e abiti troppo stretti combattono sempre più per trovare un senso”. Il cinema da qualche anno ormai aiuta a riconoscere queste criticità e Un altro mondo con la sua lineare, ma anche complessa narrazione tutta stretta attorno al suo protagonista, il credibilissimo Vincent Lindon, e la stringata ed essenziale scrittura, mai verbosa nonostante i numerosi e plausibili dialoghi, ci mette il carico da undici, perché ormai non è solo questione di conservare il diritto al lavoro e al desiderato benessere, ma è arrivato il momento – e Brizé ce lo dice con una chiarezza che migliore non potrebbe essere – di salvarci dalla schizofrenia sociale e tornare a guardare ad un mondo soltanto, quello che vorremmo nei nostri desideri.