Venezia81 – Joker: Folie à deux di Todd Phillips e il potere latente dell’amore

Non deve meravigliare che il prologo cartoonesco con cui si apre Joker: Folie à deux di Todd Phillips (in concorso a Venezia81) metta in scena i fatti accaduti nell’epilogo del primo film, quando Arthur Fleck porta a compimento il suo piano tragico al Murray Franklyn Show. Nel cartoon targato Warner, la lotta tra il clown e la propria ombra ricalca quella vissuta dal Peter Pan disneyano: come il fanciullo nato dalla penna di Barry, Arthur entra in conflitto con la propria ombra per impedirle di compiere i gesti estremi che lo condanneranno in seguito. Subendo i colpi del suo alterego Arthur viene rinchiuso nell’armadio del camerino trovandosi costretto poi a ricongiungersi con la sua parte oscura e sovversiva rea dei (5+1) crimini atroci, di cui uno appunto in diretta televisiva. Siamo nei corridoi di un’emittente e si riconoscono impresari, faccendieri, lavoranti. L’occhio non può non notare anche alcuni poster cinematografici, due in particolare: Tempi moderni e Cantando sotto la pioggia. Arthur possiede la lievità di un corpo danzante, tipica del musical classico o del cinema comico di Chaplin, guardava in tv Fred Astaire e si ritrovava dentro una sala cinematografica proprio a vedere Tempi moderni. Titolo non casuale se si pensa che Charlot nel finale di quel film faceva i conti con la propria voce. Due anni dopo siamo ad Arkham. Arthur è internato in attesa di un processo per quanto fatto nelle vesti del Joker. Appare risoluto, unito, prende i farmaci, sembra stabile nonostante l’atteggiamento delle guardie sia sempre molto duro nei suoi confronti, soffre per il suo malessere ma è lui. Si affida ad un avvocato che porta avanti la sua difesa. Sembra stare al gioco anche perché ha rinchiuso la sua ombra nel cassetto, in pace. Tutto cambia quando un giorno incrocia lo sguardo di una donna ricoverata nel reparto psichiatrico. Arthur incontra l’amore e la passione per la musica.

 

 

Musical non-musical, come dichiarato da Phillips è bene considerare che il fulcro di questa interessante e rischiosa operazione possa essere altro. È così, c’è altro. Joker: Folie à deux ha bisogno di occhi nuovi che raccolgano la sfida, disposti ad accantonare l’esistenzialismo scorsesiano del primo capitolo, i continui riferimenti all’iconografia urbana del cinema anni ’70, per lasciare spazio all’imprevedibile cupezza e chiusura di questo secondo. È la trasformazione, la prima conseguenza dell’amore: sentirsi amati, riconosciuti, desiderati, guardati. Il film punta a raccontare questo tormento interiore, splendido e drammatico che Arthur vive per la prima volta e Lee, alias Arley Queen (cioè Lady Gaga), non è soltanto una talentuosa spalla ma il principio del cambiamento interiore. La follia, allora, è dettata non solo dal fare i conti con la parte nascosta di sé ma dall’affrontare la trasformazione che l’altro ci chiede di vivere. Stride il non-musical di fronte alle incongruenze narrative, all’assenza di complicità e corrispondenza tra i due partner, al vuoto definitivo provato da Arthur nell’istante in cui comprende di essere amato per quello che non vuole essere più, cioè Joker. Stride ma è inevitabile. È una messa in scena che disturba, senza compiacimento alcuno, che rivela qualcosa di inespresso e potenzialmente esplosivo. Non è un film intero. Non è un film integro. Non potrebbe esserlo. E i suoi protagonisti non sono interi e integri. Come non è intero e integro il mondo in cui viviamo. Ma questo era stato chiarito già nel primo film.

 

 

In questo secondo si vuole chiudere giustamente il cerchio e allora si costruisce un meccanismo rotto pronto a innescare qualcosa di potenzialmente esplosivo (la carica erotica di Lady Gaga e Joaquin Phoenix è sempre evocata, mai del tutto messa in gioco) che, inevitabilmente e tragicamente, rimane latente. Esplode una bomba all’improvviso, senza il minimo preparativo cinematografico. Nessuna suspense. Tutto sfugge. Niente è controllabile. Chi sta sotto i riflettori in una relazione d’amore? Chi rimane nell’ombra? Come si può non essere frammentati se si è vissuto un’esistenza incomprensibile e ci si trova di fronte la potenza e le promesse infrante dell’amore? In Joker: Folie à deux la follia è il film stesso: spezzato, separato, inespresso. Arthur vuole crescere, non è più Peter Pan. Vuole fare i conti con la propria ombra e con la propria voce. Con queste parole Lee/Harley lo rifiuta: «Non ci resta niente, non abbiamo niente, avevamo solo la fantasia». È il senso del film. E dell’amore. Credere ad una storia. Possibile. Immaginabile. Per questo vera.