Rogue One: A Star Wars Story – L’ epicedio del rinnegato

Pochissimo tempo prima degli eventi narrati in Star Wars – Episodio IV – Una nuova speranza (che per chi scrive è ancora il buon vecchio Guerre stellari) e molto dopo Star Wars – Episodio III – La vendetta dei Sith, lo scienziato imperiale “pentito” Galen Erso (Mads Mikkelsen) si ritira con la moglie Lyra e la figlia Jyn su un pianeta lontano ma viene raggiunto dal Direttore Imperiale Krennic (Ben Mendelsohn) che ne uccide la consorte per riportarlo alla progettazione di una stazione spaziale/arma di distruzione di massa denominata Morte Nera. Erso riesce a salvare la vita alla piccola Jyn affidandola all’estremista ribelle Saw Gerrera (Forest Whitaker), veterano delle Guerre dei Cloni; e quindici anni dopo, mentre il governatore Tarkin (Peter Cushing, “resuscitato” in digitale grazie alla controfigurazione dell’attore Guy Henry), Krennic e Darth Vader stanno per terminare l’opera grazie al riluttante Erso, l’ormai adulta Jyn (Felicity Jones) si ritrova a capeggiare un gruppo composto dall’ufficiale Cassian Andor (Diego Luna), dal monaco cieco Chirrut Imwe (Donnie Yen) intriso dei dogmi della Forza, dal guerriero Baze Malbus (Jiang Wen), dal pilota disertore Bodhi Rook (Riz Ahmed) e dal droide imperiale riprogrammato K-2SO (Alan Tudyk in performance capture, e credo sia la prima volta che la tecnica viene utilizzata per dare “vita” a un automa) e a rivelare all’Alleanza Ribelle che nei piani di costruzione della Morte Nera il padre ha deliberatamente nascosto una falla. E quando il generale Mon Mothma (Genevieve O’Reilly) decide che non esistono prove sufficienti per avallarne il piano di recupero, Jyn e i suoi decidono di fare di testa loro: rubano una nave, adottano il nome in codice Rogue Uno e portano sacrificalmente a compimento l’operazione da soli. I dati conquistati arriveranno dritti nelle mani della principessa Leia Organa. Sì, per sommi capi è così.

Non si tratta di essere bastardi dentro, è che ti ci fanno diventare. Chi frequenta le pagine del sito, sa bene che giusto un anno fa, in occasione dell’uscita di Star Wars – Il risveglio della Forza (d’ora in poi per comodità VII, e ci riferiremo anche a tutti gli altri film della saga solo coi numerali, per far prima) ci imponemmo controvoglia quasi un mese di rispettoso silenzio a differenza di tanti sventurati desiderosi di dire subito la loro pur arrampicandosi sugli specchi per tacere l’indicibile (pochi perché pagati per farlo; tutti gli altri per voler essere sul pezzo a costo di tradire l’etica stessa della critica per non tradire quella, ridicola, del no spoiler) prima di affrontarne una lettura che non nascondesse quel famoso nodo cruciale di cui ancora oggi si fatica a dire. A scanso di equivoci: sapete che Han Solo è morto, no? Bene. Qui crepano tutti. Non fate quella faccia. Se abbiamo aspettato un mese per quell’evento epocale che fu VII, una settimana abbondante per Rogue One – A Star Wars Story è un lasso di tempo proporzionalmente corretto entro cui dare per scontato che lo sappiate già. Tanto, ruota tutto attorno a questo non trascurabile particolare. Per cui mettiamoci il cuore in pace. E quindi.

 

 

Dopo VII e Rogue One, secondo la logica di pianificazione della macchina disneyana (la stessa che non ci salverà da un’altra dozzina di comic movie Marvel da primavera a fine decennio), i prossimi  anni dispari ci riserveranno il completamento della trilogia (forse…) conclusiva della saga creata da George Lucas quarant’anni fa, mentre gli anni pari saranno occupati da tre film che (probabilmente…) recheranno come egida comune A Star Wars Story e si inseriranno a vario titolo nella timeline dell’intero progetto. Vale a dire: 2017-VIII, 2018-Han Solo, 2019-IX, 2020-Chissà (pareva dovesse essere Boba Fett ma pare che l’idea sia stata ufficialmente accantonata). Ma se, dopo VII, VIII e IX si atterranno ancora per spirito, look, atmosfere e conseguenze alle coordinate-base dell’epopea lucasiana, pare proprio che ai tre spin-off (termine che a giudicare dalla totale impossibilità di Rogue One di generare nuove derive narrative sembra sin d’ora improprio) saranno invece concesse notevoli libertà di interpretazione, impostazione e rappresentazione pur col vincolo scrupoloso al canone della saga. E Rogue One – A Star Wars Story, pur nella sua totale atipicità, è già un esempio eloquente di questa nuova prassi. Intanto perché, pur narrando una storia perfettamente fruibile a sé, si collega direttamente a IV (come dimostra l’ultima folgorante e parzialmente inattesa inquadratura prima dei titoli di coda); e poi ovviamente per la quantità di elementi, strizzate d’occhio e “completamenti” del “già noto” di cui è letteralmente costellato. Tra i mille punti di contatto con la cosmogonia fin qui conosciuta di Star Wars, il fulmineo cameo degli immancabili C-3PO e R2-D2, l’agnizione furibonda di Darth Vader e la sua ricontestualizzazione dopo gli eventi di III (compresa l’inedita dimora che il Sith si è fatto erigere nientemeno che sul pianeta Mustafar, dove avvenne il fatale scontro con il giovane Obi-wan Kenobi), il cameo dei poi sfortunati Dr.Evazan e Ponda Baba (unico autentico momento nerd), l’apparizione del padre adottivo di Leia, Bail Organa (Jimmy Smits), e la sua “lettera d’incarico” al pilota di X-Wing Wedge Antilles, i “nuovi” ammiragli della razza Mon Calamari di cui farà poi parte il mitico Ackbar (“It’s a trap!”). Oltreché, ovviamente, la spiegazione attesa da quarant’anni (e geniale) della fino a oggi inspiegabile vulnerabilità della Morte Nera. Quello che però fa di Rogue One un’esperienza unica, indescrivibile e totalmente sui generis è una sorta di costante di morte che lo informa integralmente. Non poteva essere altrimenti: per quale motivo nessuno dei sette personaggi principali (con la parziale eccezione del Saw Gerrera di Whitaker: l’assonanza con Che Guevara non è casuale) viene citato in IV, V e VI? Perché, ufficialmente, nessuno di loro è mai davvero esistito. Perché prima della fiaba e della Forza, dello spirito da fumetto fantasy e delle beghe tra genitori e figli, c’è stata carne e c’è stato sangue. Perché l’idea formidabile degli sceneggiatori Chris Weitz e Tony Gilroy (quest’ultimo ha anche rigirato e rimontato molte sequenze per ordine della Disney, dopo qualche dissidio con il regista accreditato Gareth Edwards: non si sa dove abbia messo le mani, ma a conti fatti la cosa è assolutamente irrilevante) è stata quella di strutturare l’intero film come una sorta di epicedio del milite ignoto, del rinnegato, dell’outcast.

E questo omaggio, molto americano (e molto cinefilo: c’è il Peckinpah del Mucchio selvaggio, il Coppola di Apocalypse Now, lo Sturges dei Magnifici sette, lo Spielberg dell’incipit di Salvate il soldato Ryan e perfino il Kurosawa dei Sette Samurai e il John Woo del sottostimato Windtalkers) al mito dell’unsung hero, dell’ultima missione, dell’autodafé (il personaggio di Chirrut Imwe è forse la più simbolica e sublime intuizione del mazzo), questa violenta sottolineatura del concetto vecchio e vero come il mondo secondo cui non ci sono rivoluzioni senza martiri né ribellioni senza vittime, è uno star wars war movie: ovvero, il primo vero film della saga in cui le guerre del titolo sono rappresentate nella loro radice etimologica e in un delirio di coreografie aeree che più che a un trailer per il gran finale di IV sembra guardare alla tradizione del cinema bellico-aviatorio hollywoodiano degli anni Cinquanta. E mentre la morte [una morte che per scelta deliberata e coerente esclude ogni possibile rapporto di prossimità e di affezione coi protagonisti, alla faccia dei ricercatori d’empatia e di emozioni, con la scomparsa di Jyn e Cassian apocalittica quanto quella della sequenza conclusiva -identica- di These Final Hours di Zak Hilditch. E in questo senso sembra addirittura incredibile che si sia potuto progettare il “solito” marketing miliardario di action figures, playset Lego e robot giocattolo, quando perfino il sussiegoso droide “probabilista” 2-KSO -versione rovesciata, razionalista, oscura e anti-camp di C-3PO- si piega alla logica d’immolazione degli eroi “umani”. Buon Natale, bambini: ora coi vostri pupazzetti ci potrete giocare perlopiù a una versione space-opera di The Walking Dead] aleggia ineluttabile sui “buoni”, la cifra dei “cattivi” sembra essere beffardamente quella della  resurrezione/reincarnazione (Anakin frankensteinizzato in Darth Vader; il simulacro del defunto Cushing per ridare vita a Tarkin) o l’essere già morti in vita (l’anodino, fantasmatico bianco sporco che connota il pallido Krennic). L’analisi (parola grossa) fatalmente isola ed enfatizza questi elementi dal contesto in cui sono inscritti, per cui non preoccupatevi troppo: al di là delle pippe, Rogue One (pur con qualche incertezza di ritmo e parecchie desolanti cadute nella inadeguata colonna sonora del sopravvalutatissimo Michael Giacchino, unico vero punto debole organolettico del film) è pur sempre una Star Wars story: e se ne può godere da fan senza sentirsi in dovere di ricamarci sopra più di tanto. Ma è una specie di take alla Final Destination di Star Wars. Un episodio di Star Wars che è anche una riflessione su Star Wars. O, per certi versi, più un what if che un prequel o un midquel o quel che volete. Per l’appunto, una story. Che può facilmente trasformarsi in tale. Cioè. Che alla fine, canone o no, sarebbe bello se non fosse nemmeno vera. Come quelle leggende sui Jedi, sapete.