All’interno de La città di vetro, il primo romanzo breve che compone la Trilogia di New York scritta Paul Asuter, il medesimo autore si immagina in una conversazione con il suo protagonista (uno scrittore che pubblica sotto pseudonimo e che per una coincidenza si trova a indagare su un caso sotto le mentite spoglie di un detective che non conosce). I due discutono della sorte che li accomuna e ricordano come Miguel de Cervantes Saavedra scrisse Don Chisciotte della Mancia dichiarando di aver semplicemente tradotto un manoscritto autentico ritrovato al mercato di Toledo: dopo tutto, quel romanzo «è un attacco contro i pericoli della finzione»[1]. Terry Gilliam sembra partire proprio da qui per realizzare il suo progetto più ambizioso e travagliato che mai, un film autobiografico in cui il visionario autore statunitense si mette a nudo rendendo omaggio al (suo) cinema, un mondo posticcio ma immaginifico capace di rassicurare e al tempo stesso abbindolare gli occhi di molteplici spettatori annacquando i confini tra realtà e finzione. L’uomo che uccise Don Chisciotte è infatti un grande e infinitesimale gioco di specchi. Proprio come nella sequenza nel romanzo di Auster, la figura del regista viene restituita dall’alter ego interpretato da Adam Driver (un cineasta alle prese con un secondo film tratto dai testi del romanzo in questione che ricorda da vicino l’operato di Gilliam dopo l’uscita di Lost in La Mancha), così come, a sua volta, torna sullo schermo il fido Jonathan Pryce (protagonista dello strepitoso Brazil) e, più in generale, vengono alimentati innumerevoli personaggi metacinematografici a cavallo tra il grottesco e il surreale.
Gilliam torna sui suoi passi per un (ultimo?) saluto a un cinema che non c’è più, abitato da menti folli che hanno preferito perdersi all’interno della creatività posticcia invece che rimanere freddi e impassibili dietro ricostruzioni digitali. Non è più tempo per Terrry Gilliam, non è più tempo per chi il cinema (quello impresso su pellicola, il medesimo materiale di cui sembrano esplicitamente fatte le pale dei mostruosi mulini a vento) lo ha alimentato in maniera artigianale, non è più tempo per vecchi romantici che si nutrono di malinconia e valori talmente lontani dalla contemporaneità da risultare patetici. Gilliam è consapevole di tutto ciò ma comunque sembra non riuscire a farne a meno. Pur di non abbandonare quel mondo, il suo mondo, è disposto a scendere a compromessi divenendo così vittima e carnefice, Don Chisciotte e l’uomo che lo uccise al tempo stesso. Il film si trasforma così in un labirinto di riflessi a tratti confuso e disorientante in cui la realtà e la finzione non sono mai state più vicine e indistinguibili. Gilliam non si limita a mettere in mostra i pericoli di una simile sovrapposizione, ma evidenzia l’estremo fascino che questa esercita su ognuno di noi. Fascino che si traduce in un viaggio completamente immersivo e unico al quale, di tanto in tanto, faremmo bene a prendere parte senza vergognarcene. Proprio come il suo ideatore.
[1]P. Auster, Trilogia di New York, Torino, Einaudi, 1985, p. 103.