Serena Sinigaglia: Utoya e la cancrena d’Europa

Silenzio_innocenti_OsloAnders Behring Breivik è tornato recentemente alla ribalta delle cronache in quanto ha, in parte, vinto la causa contro lo Stato norvegese, colpevole di aver violato i suoi diritti umani. Ha ottenuto un risarcimento e continuerà a scontare i suoi 21 anni di pena (ma potrà essere estesa se al termine sarà ritenuto ancora pericoloso) per l’accusa di terrorismo e omicidio volontario. Il 22 luglio 2011 Breivik sterminò 77 persone: travestito da poliziotto fece esplodere un’autobomba a Oslo, nei pressi del palazzo del governo, causando 8 vittime e poi, mentre la città era in tilt, si trasferì sull’isola di Utøya, il paradiso nordico sede dei campeggi estivi dei giovani laburisti uccidendo a sangue freddo 69 ragazzi, molti dei quali accorrevano da lui in cerca di protezione. Non si trattò del gesto di un folle, ma di un’operazione pianificata nei dettagli per anni da un neonazista che puntava a distruggere alla radice il Partito Laburista, reo di praticare una politica multiculturale. Lo spiega in maniera esemplare il libro inchiesta di Luca Mariani Il silenzio sugli innocenti. Le stragi di Oslo e Utøya. Verità, bugie e omissioni su un massacro di socialisti, edito da Ediesse e vincitore per la saggistica del Premio Matteotti 2014. Ma lo spiega anche, in maniera altrettanto esemplare, Utoya, lo spettacolo di Serena Sinigaglia, scritto da Edoardo Erba e interpretato da Arianna Scommegna e Mattia Fabris, straordinari nel dare vita a sei diversi personaggi. Uno spettacolo straziante e necessario, che pone molte domande e interpella in prima persona lo spettatore. Ne abbiamo parlato con Serena Sinigaglia.

 

Tutto nasce dal libro di Luca Mariani…

Sì, un paio di anni fa mi hanno chiamato a far parte della giuria del Premio Matteotti assegnato a opere che si distinguono per l’impegno civile. Ero nelle giuria che premia le opere teatrali e letterarie, ma avevo ricevuto tutti i libri delle varie sezioni. Sono sempre molto interessata ai fatti emblematici del nostro tempo, quindi avevo questa pila di libri in casa e continuavo a dirmi che volevo leggere l’inchiesta di Mariani sulla strage di Utøya. Quando l’ho fatto sono rimasta folgorata. Ci ho visto tutta una serie di cancrene che descrivono la nostra società. Intanto mi sono chiesta come avevo potuto dimenticare questa strage avvenuta nel cuore dell’Europa solo quattro anni prima. E poi ho riflettuto sul fatto che fosse stata derubricata a “gesto compiuto da un folle” in stile Columbine quando invece, leggendo il libro, scopri che non è così. Il sistema informativo ha messo in moto, volontariamente e involontariamente, questa notizia. Le prime voci che circolarono subito dopo la strage parlavano di un attentato di matrice islamica. Poi arrivò la smentita, quando Breivik si consegnò alla polizia. Peccato, però, che nessuno ha reso noto il dettaglio che l’isola di Utøya è storicamente di proprietà dei laburisti che ogni anno organizzano qui un campo per i giovani del partito. Quindi c’è dietro una precisa volontà di depistaggio. Questo è stato il primo livello di pensiero. Un altro riguarda la natura stessa del killer che è uno di noi, potrebbe essere il figlio di una famiglia della buona borghesia e anche fisicamente ha tutte le caratteristiche del norvegese tipico. Quindi, siccome io in teatro parlo di quello che conosco e vivo, mi sembrava doveroso portare in scena questa vicenda.

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Soprattutto in tempi in cui la minaccia sembra venire sempre dall’esterno…

Già… Tra l’altro Breivik non ha il profilo del disagiato sociale, è la persona che vive in mezzo a noi e pianifica una strage, esattamente come il terrorista dell’Isis che tanto ci fa paura. Allora mi sono chiesta: Perché non ci occupiamo delle violenze che siamo capaci di produrre all’interno della nostra struttura sociale? Il capitalismo genera divisioni, disagio, violenza, la violenza chiama altra violenza. Sono temi che ci riguardano da vicino… Utøya meritava di essere approfondita e raccontata perché è qui, nel cuore della nostra società che si generano i mostri. È un evento che ti fa interrogare su quello che stiamo diventando. Questo è un po’ il mio tarlo, e dovrebbe essere quello di ogni teatrante, perché il teatro fotografa l’istante.

 

Per la drammaturgia hai ritrovato Edoardo Erba con cui avevi già lavorato per Nudi e crudiItalia Anni Dieci.

Si, con Edoardo collaboro da tempo. Con Arianna e Mattia gli abbiamo detto che, sostanzialmente, non ci dovevano essere né le vittime né il carnefice (non volevamo assolutamente dare voce a uno che ha fatto quel che ha fatto proprio per attirare l’attenzione su di sé e si è anche preso la briga di scrivere un pamphlet di 1500 pagine). Volevamo affrontare la strage da un punto di vista presente, ma trasversale per l’uditorio italiano. E questo è il risultato. Non siamo le vittime, né i parenti delle vittime, ma possiamo identificarci con chi ha assistito alla vicenda.

 

Utoya_2Fin dall’inizio avevi pensato a due attori per interpretare i sei personaggi?

Sì, con Edoardo abbiamo concordato i tipi di coppia, ma fin dall’inizio volevo solo due attori a interpretare tutti i personaggi. Le varie coppie veicolano però anche altre questioni che mi stanno a cuore: nei poliziotti Unni e Alf c’è anche il mistero del perché ci hanno messo 1h10’ a intervenire. Anche se non lo diciamo nello spettacolo, lo stesso Breivik ha chiamato due volte la polizia per chiedere quando sarebbero arrivati, perché voleva consegnarsi come prigioniero politico. Questo ti fa venire il dubbio che una qualche forma di connivenza ci sia stata. Inoltre i poliziotti declinano il tema dell’obbedienza che, secondo me, è uno dei grandi temi europei. Da qualche tempo mi occupo delle grandi questioni legate all’Europa e di come l’Europa unita venga minata. L’obbedienza mi sembra sia cruciale: i nazisti obbedivano a un ordine, anche qui i poliziotti non si muovono perché obbediscono agli ordini dei superiori. Ma fino a che punto si deve ubbidire e quando invece ci si deve opporre? In Italia sappiamo che l’opposizione estrema ha generato i peggiori terrorismi (le Brigate Rosse, Forza Nuova…), ma oggi siamo totalmente sopiti.

 

E i genitori?

Malin e Gunnar rappresentano la famiglia che non è in grado di dare forza ai figli. La metafora del Rolex è emblematica: alla figlia non frega niente di niente, lei ha disubbidito (ancora il tema dell’obbedienza) per fare una stupidata. Ai genitori è però anche connesso il tema della fede: lui difende le utopie, mentre lei fa un discorso molto bello in cui attacca tutte le fedi, ma che getta anche una luce sinistra di qualunquismo sul personaggio.

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Infine ci sono i due fratelli contadini…

Inga e Peter sono i vicini di casa di Breivik e rappresentano l’individualismo, una forma esasperata di solipsismo. Sono il simbolo dell’indifferenza e mi fanno venire in mente Gramsci quando diceva «Odio gli indifferenti».

 

Nello spettacolo è davvero potente il commento audio, un tappeto sonoro fatto di spari, ticchettii di orologi, rumori vari… Per non parlare della scelta del brano Requiem for a Dream di Clint Mansell dall’omonimo film di Aronofski.

L’audio serve a restituire l’angoscia di quei momenti terribili. Sono vuoti di angoscia abitati da suoni spaventosi. Devo dirti che, per me, Arianna e Mattia recitano in un cimitero, per questo con loro ho lavorato molto sulla ieraticità, la sobrietà perché la morte di questi ragazzini è troppo. Interpretano sei diversi personaggi, ma non ne caricano nessuno perché recitano per il funerale dei ragazzi.

 

Anche la scenografia va in tal senso.PSG1445793848PS562d10386d3d6

Si, ho chiesto a Maria Spazzi, la scenografa, di realizzare una sorta di memoriale. I tronchi spezzati sono le vite interrotte di questi giovani, gli specchi sono l’immagine polifonica di una società in frantumi. Poi la scenografia restituisce anche l’immagine della Norvegia, la foresta… Ma per me era soprattutto un altare per queste giovani vittime.

Le fotografie sono di Serena Serrani

 

Milano  Teatro Filodrammatici   9-14 gennaio