Léa Seydoux: quello che mi piace di più di questo mestiere è annullarmi in un personaggio. Diventare altro.

Doppia Léa Seydoux. È stata lei l’enigma di Cannes 2019. La vedi sullo schermo, in Roubaix, une lumière di Arnaud Desplechin. I capelli lunghi sporchi spettinati. Le occhiaie. Una dropout alcolizzata, emarginata, lesbica, con figlio a carico. Accusata di aver ucciso un’anziana. Lei e la sua compagna. La notte di Natale. Lei la definisce «una che resiste. La forza le viene dall’essere una madre senza un padre. Non è un dettaglio. Non è secondario». Anche Léa è mamma. Un bambino tenuto lontano dai riflettori avuto dal compagno André Meyer. Due anni e mezzo fa… «La nascita di George mi ha insegnato a guardare gli altri. Come attrice alla fine impari a restare concentrata su te stessa e basta». Roubaix, une lumière è il film del ritorno: «Quella sullo schermo sono io oggi, tornata ma diversa, dopo la pausa che mi sono presa». Presto tornerà sul set del nuovo James Bond, dopo essere stata riconfermata. E c’è anche L’histoire de ma femme della regista Ildikó Enyedi.
 

 
Arnaud Desplechin è il regista di Roubaix, une lumière:«Per tutta la lavorazione del film ho pensato a Delitto e castigo. Ai volti delle vittime e dei colpevoli. Donne l’una e le altre. Ho sempe avuto davanti agli occhi i volti di Léa e Sara. E della vecchia Lunette… E l’idea che tutto e tutti siamo umani. Profondamente umani. Che lo è la sofferenza delle vitttime e dei colpevoli». Roubaix, la città del film, è la città del regista. Dice l’attrice: «Confesso che mentre leggevo la scenenggiatura ero confusa. Mi ha aiutato immergermi nel suo mondo. Nella sua città. Respirarla come fa lui da sempre. Per coincidenza è la stessa città dove ho girato La vita di Adele». Il film che le valse la Palma d’Oro nel 2013. Per la prima volta, il premio più importante del festival venne diviso tra regista e le sue attrici. «In realtà raramente mi sono rispecchiata nei miei personaggi. Qui tutto è ancora più estremizzato. Penso di non essermi mai messa a nudo così tanto. Ho avuto un’educazione borghese. Lei entra ed esce di prigione. Ma è quello che mi piace di più di questo mestiere. Annullarmi in un personaggio. Diventare altro.  Andare verso gli altri. Interpretarli senza tradirli mai. In questo caso mi ha aiutato tantissimo il documentario a cui Arnaud si è ispirato, sulle donne arrestate dalla polizia nella sua città… E alla fine, anche se abbiamo vite così diverse, Claude ha qualcosa di me. Della mia adolescenza in apparenza lontanissima dalla sua. Lei resiste per quel figlio bambino che nel film non vediamo mai. E perché l’infanzia e l’adolescenza che ha avuto l’hanno resa così. Forte. Dura. Nel film si dice che era bella, piaceva ai ragazzi, le piacevano i vestiti… Io? Mi sentivo un pidocchio e nessuno voleva essere mio amico. Giuro…».