Ricordiamo Djibril Diop Mambety e sosteniamo il crowdfunding per dedicargli il primo saggio italiano

Il 23 luglio 1998 scompariva Djibril Diop Mambety, il poeta del cinema dell’Africa sub-sahariana, l’artista d’avanguardia più visionario e ‘musicale’, colui che seppe re-inventare l’Africa con immagini cariche di umorismo e saggezza. Aveva solo 53 anni. Era un principe indisciplinato e geniale, che “si consumò” nel fuori campo, e dando al campo, al cinema, con tempi dilatati, opere che rimarranno nella storia del cinema mondiale (proprio come un altro colosso del cinema africano e internazionale, a lui simile per genialità e “dispersione” di talento in una vita vissuta “pericolosamente”, Idrissa Ouedraogo). In trent’anni, dal 1968 al 1998, Diop Mambety ha realizzato poche ma memorabili opere d’arte, che hanno contribuito a dare un’identità adulta alla cinematografia africana. Contras City (1968), cortometraggio d’esordio, esplorazione soggettiva di Dakar (magnifica ossessione che percorre tutta l’opera del cineasta senegalese), ritenuto il primo film comico africano. Badou Boy (1969), mediometraggio che, documentando l’inseguimento di un poliziotto a un ragazzo per le strade di Dakar, si inserisce con energia nel cinema di protesta tipico degli anni Sessanta e Settanta. Touki Bouki – Il viaggio della iena (1973), è il suo primo, folgorante lungometraggio: due giovani, un ex pastore e una studentessa, sognano di imbarcarsi su una nave e da Dakar raggiungere Parigi. Il lavoro di de-strutturazione del linguaggio – visivo, sonoro, diegetico – raggiunge un punto di altissima ricerca: Touki Bouki (restaurato nel 2008 dalla Fondazione di Martin Scorsese, molto attento alla storia del cinema africano) è un capolavoro. Il riferimento a Jean-Luc Godard è inevitabile. Ma Roberto Silvestri, con la sua intatta e indispensabile libertà critica, scrive, rovesciando finalmente il punto di vista e la centralità occidentale, riferendosi al personaggio femminile di Touki Bouki e in particolare alla scena del film con lei e il compagno sulla motocicletta ornata dalle corna di una mucca – immagine “ripresa” di recente da Beyoncé nella campagna promozionale del suo ultimo tour -, che «quel centauro donna, simbolo di un’Africa che verrà, mi ha fatto viaggiare nello spazio-tempo: ho già visto l’eroe Marvel a venire Black Panther, e scoperto che Godard era stato il Djibril Diop Mambety francese e George Lucas il primo effettista speciale ‘american-african’». In apertura un’immagine tratta da Touki Bouki.

 

 

 

La città di Dakar, il mare, i corpi ‘danzanti’, la musica e le voci costituiscono un’esemplare e energica sinfonia di suoni e immagini presente in tutta l’opera dell’autore. Ma Diop Mambety fatica a fare film. Si occupa di fotografia a Dakar e solo nel 1989 torna al cinema con un altro testo di grande importanza teorica, il cortometraggio Parlons grand-mère, dove filma il set, e quel che sta nei dintorni, di Yaaba di Idrissa Ouedraogo (a proposito di “coincidenze”, di quel “qualcosa nell’aria” che fa incontrare uomini e poetiche…), sfuggendo alle convenzioni del reportage sulla lavorazione di un film. Nel 1992 torna al lungometraggio, Hyènes, riambientando, con feroce umorismo che smantella dall’interno la ‘classicità’ delle inquadrature, il dramma teatrale La visita della vecchia signora del drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt a Colobane, il natio quartiere di Dakar immerso nella miseria. Poi, ancora e sempre Dakar, i suoi luoghi, i bambini così amati e con i quali creava un’immediata empatia, ovvero quella ‘piccola gente’ alla quale aveva in ogni istante guardato con amore. A essa dedicò, in particolare, quella che avrebbe dovuto presentarsi, una volta completata, come la trilogia su Dakar e sui suoi abitanti ai margini e ricchi di umanità. Una magnifica trilogia – nelle intenzioni composta di tre mediometraggi, idealmente uniti a formare un lungometraggio – iniziata con Le franc (1994), proseguita con La petite vendeuse de Soleil (1999, uscito postumo, ma quasi del tutto montato dall’autore) e interrotta dalla morte del regista. Sempre, il cinema di Diop Mambety si è collocato in un doppio spazio, radicandosi nelle brucianti questioni relative al continente africano (il rapporto con la propria cultura, le utopie dell’Occidente, il sogno della partenza, la politica disastrosa del Fondo Monetario Internazionale) e allo stesso tempo ponendosi in stretto contatto con il cinema sovversivo che veniva prodotto ovunque nel mondo. Per il cineasta senegalese si è sempre trattato di sperimentare, di spezzare il discorso per ritrovare, da quella frammentazione, unitarietà e senso. Ed è stato anche attore, Diop Mambety. In Senegal lavorando, a inizio carriera, nella Troupe Nationale Daniel Sorano. In Italia, dove nei primi anni Settanta visse intensamente la contestazione, interpretando l’episodio Che cosa non ha fatto della commedia erotica Il Decamerone nero (1972) di Piero Vivarelli.

 

 

Per ricordare Djibril Diop Mambety e la sua immensa opera rivoluzionaria e anarchica, nel ventennale della sua morte, stiamo lavorando al primo libro in italiano dedicato al regista, Mambety o il viaggio della iena, a cura di Simona Cella e Cinzia Quadrati. Al fine di rendere possibile la pubblicazione del volume è stato aperto un crowdfunding per sostenere i costi principali. Tutte le informazioni sul progetto e su come aderirvi si trovano sul sito https://www.indiegogo.com/projects/mambety-o-il-viaggio-della-iena#/.